Pizza Unmik

Internazionali e locali in Kosovo: due mondi paralleli che faticano a comunicare, per l’esistenza di stereotipi e pregiudizi reciproci. Sul tema, il drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj ha dato vita ad una corrispondenza con la collega tedesca Kathrin Röggla, ora raccolta sotto il titolo di “Pizza Unmik”

10/05/2010, Marjola Rukaj - Pristina

Pizza-Unmik

akuban/flickr

Jeton Neziraj (1977), direttore artistico del Teatro Nazionale di Pristina, è uno dei drammaturghi oggi più attivi in Kosovo. Sensibile alla realtà contemporanea, ha spesso posto al centro del suo lavoro i rapporti tra kosovari albanesi, kosovari serbi e i funzionari internazionali presenti in Kosovo. Proprio sulla percezione dei funzionari internazionali, nel corso dell’ultimo anno, Neziraj ha dato vita ad una corrispondenza con la drammaturga tedesca Kathrin Röggla, sfociata poi in un progetto comune. Intitolato “Pizza Unmik”, il lavoro è stato presentato alla Fiera del Libro di Lipsia, dove è stato accolto con notevole interesse dal pubblico e dalla stampa tedesca, e a breve verrà adattato in forma teatrale. “Pizza Unmik” descrive lo sfaccettato e non sempre facile rapporto tra chi vive in Kosovo e gli internazionali, le cui vite sembrano spesso svolgersi in mondi paralleli, che faticano a comunicare per l’esistenza di stereotipi e pregiudizi reciproci.

Come nasce “Pizza Unmik”?

“Pizza Unmik” è il titolo della corrispondenza che ho avuto con la drammaturga tedesca Kathrin Röggla. Prende spunto dalle distinzioni tra i locali e gli internazionali in Kosovo. In una delle lettere spiegavo alla mia collega tedesca che i numerosi internazionali che vivono e lavorano in Kosovo frequentano bar e ristoranti diversi da quelli che frequentano i kosovari, e che lì tutto viene chiamato in maniera diversa. Ad esempio un tipo di pizza che per i kosovari si chiama “Pizza Pristina”, nei locali degli internazionali diventa “Pizza Unmik”. Il titolo è piaciuto al Goethe Institut, che ci ha sostenuto, e abbiamo pensato di sceglierlo per il nostro progetto.

Com’è nata la corrispondenza con Kathrin Röggla sugli internazionali in Kosovo?

La corrispondenza è nata nell’ambito di Hotel Pristina, un progetto del Büro für kulturelle Angelegenheite di Berlino, in collaborazione con il Qendra Multimedia di Pristina, e con il sostegno del Goethe Institut di Belgrado. Il tema della corrispondenza ruotava intorno al ruolo delle ONG internazionali e delle missioni internazionali in Kosovo. Abbiamo voluto indagare sul loro modo di vivere e sul loro rapporto con la cultura locale, sul modo in cui questi due mondi convivono. Di fatto, sul campo si registra la coesistenza di due mondi paralleli. Ne abbiamo parlato spesso, non senza cinismo. Di solito di ONG internazionali si parla e si discute in termini completamente diversi, che hanno per lo più a che fare con l’impatto sulla società nella quale operano e sull’ammirevole lavoro che svolgono. In seguito i “mercenari sociali” delle ONG – come li definisce la Röggla – scrivono libri e brochure sui paesi in cui hanno lavorato, di solito dai toni patetici, in cui vengono descritte le condizioni e la miseria del paese, degli abitanti locali, e i loro difetti. Di solito, però, il punto di vista dei locali è totalmente assente…

Come vengono percepiti gli internazionali da parte dei kosovari?

E’ difficile rispondere brevemente a questa domanda. Nella mia corrispondenza con la Röggla ho elencato alcuni degli epiteti e descrizioni ciniche che si sono ormai consolidati come stereotipi dei kosovari sugli internazionali. Ad esempio si dice che gli internazionali mangiano troppo, che guadagnano tantissimo, che frequentano prostitute, che sono omosessuali, che per loro serbi e albanesi sono indistintamente vittime e criminali, che bevono birre con grandi boccali, che fanno sesso con le loro interpreti locali, che sono spie, che lavorano per l’interesse della Serbia, che ti possono procurare un visto in quattro e quattro otto, che sono falliti che non riescono a trovare lavoro nel proprio paese, che amano mangiare insalate e verdure come le mucche, che causano incidenti stradali senza sentirsi responsabili davanti a nessuno, che trovano imperfetto tutto ciò che è locale, che trattano i kosovari come se fossero una tribù delle giungle africane. Su di loro circolano numerose barzellette, spesso stilisticamente molto colorite.

E come vengono percepiti i kosovari da parte degli internazionali?

Penso che anche loro abbiano degli stereotipi cinici sui kosovari. Però sarebbe meglio rivolgere questa domanda a loro. Non si può non notare come spesso vengano in Kosovo convinti che si troveranno di fronte ad un paese al collasso e gente incolta e incivile.

Come si sono creati questi due mondi paralleli?Inizialmente i kosovari vedevano negli internazionali i loro salvatori, con un approccio quasi messianico…

Indubbiamente, all’indomani del conflitto, c’era enorme rispetto per il lavoro degli internazionali. E’ normale: il Kosovo era all’epoca una società distrutta e si aveva bisogno di sostegno per ricostruire tutto, sia in senso economico che psicologico. L’entusiasmo dei kosovari era anche conseguenza dell’aiuto della NATO al Kosovo durante il conflitto. Col passare del tempo, però, la gente ha notato che proprio la missione dell’Unmik sembrava rendere più difficile lo sviluppo. I kosovari hanno iniziato a sentirsi infastiditi da questi tutor internazionali, pagati circa 20 volte più dei locali, spesso per svolgere lo stesso lavoro. Molti internazionali hanno iniziato ad abusare dell’accoglienza dei kosovari con il loro comportamento: le jeep bianche che guidano con arroganza gli uomini dell’Unmik sono diventate sinonimo di colonizzazione agli occhi dei kosovari. All’Unmik sono stati assegnati i migliori edifici: Pristina si è trasformata in una città fantasma, con le sedi dell’Unmik recintate da grossi blocchi di cemento, o filo spinato, ermetiche ed inaccessibili ai comuni cittadini.

I mondi paralleli non sono una novità in Kosovo… Quanto incide sulla percezione reciproca tra kosovari e internazionali la lunga esistenza della società parallela durante il regime di Milošević?

C’è un’enorme differenza tra i mondi paralleli di allora e quelli di oggi. Ma ci sono anche punti in comune. I serbi allora, e gli internazionali oggi, costituiscono una minoranza che governa la maggioranza, cioè gli albanesi. Ma le circostanze sono completamente diverse. Oggi la gente si sente libera e in molti non si curano della presenza degli internazionali. Col passare del tempo, poi, la presenza degli internazionali sta diventando sempre meno visibile.

Molti funzionari dell’Unmik presenti in questi anni in Kosovo sono arrivati da paesi in via di sviluppo. Questo fattore ha influito in qualche modo sulla percezione della missione da parte dei kosovari?

In effetti buona parte del personale Unmik arriva da paesi dell’Asia o dell’Africa che, per molti versi, sono molto più arretrati del Kosovo… Questo ha contribuito sin dall’inizio ad aumentare lo scetticismo e a porre in cattiva luce la credibilità dell’Unmik agli occhi dei kosovari. Faccio un esempio: per un certo periodo la carica di ministro della Cultura nell’ambito dell’Unmik è stato svolto per da un funzionario proveniente da un paese nel quale non esiste alcun ministero della Cultura.

L’arrivo della missione europea Eulex, che ha rimpiazzato di fatto la missione Unmik, ha cambiato la situazione?

Con l’arrivo di Eulex alcune cose sono effettivamente cambiate: questo anche perché la missione è molto più ridotta numericamente rispetto ad Unmik e ha un ruolo meno attivo nell’amministrazione del Kosovo. Nonostante il rispetto che i kosovari nutrono nei confronti dell’Unione europea, però, penso che la maggior parte si sentano stanchi di queste missioni, mentre non si registrano cambiamenti in positivo nella vita di tutti i giorni. Sotto alcuni aspetti, la nuova missione non è poi molto diversa da quella Unmik. I nuovi arrivati guidano jeep azzurre invece che bianche, ma continuano indisturbati a non rispettare i limiti di velocità. Questo è estremamente irritante perché dà l’impressione che vogliano mostrare con prepotenza la loro superiorità nei confronti degli “imperfetti” kosovari. Inoltre, una parte significativa dello staff di Eulex è stato reclutato all’interno delle fila di Unmik…

Il movimento Vetëvendosje di Albin Kurti, intanto, negli ultimi tempi sembra godere di una crescita di consensi. L’esistenza dei due mondi paralleli incide su questo rafforzamento?

Vetëvendosje mobilita soprattutto i giovani, che sono stanchi del pessimo modo di funzionare delle istituzioni kosovare. Senza dubbio si tratta di un movimento in crescita. Albin Kurti pone dei quesiti fondamentali per il futuro di questo paese, che riguardano tutti noi. Il suo bersaglio principale è da sempre l’Unmik e il suo ruolo in Kosovo: un ruolo da sempre pieno di contraddizioni. Kurti rimane la persona forse più critica e più coraggiosa del Kosovo di oggi. Pone domande sul futuro del Kosovo che rappresentano una sfida per tutti noi, non solo per i funzionari dell’Unmik e delle altre organizzazioni internazionali presenti in Kosovo.

Ma gli internazionali avranno sicuramente portato qualcosa di positivo al Kosovo…

Assolutamente sì. Le cose positive sono tante. Subito dopo la guerra hanno messo ordine e hanno creato le istituzioni base del governo. Sono stati molto attivi e hanno contribuito in molti sensi al processo di democratizzazione e al rispetto dei diritti umani, ad esempio monitorando e organizzando le elezioni. Con la loro presenza hanno poi creato molti posti di lavoro. Su questo non c’è alcun dubbio, e i cittadini kosovari ne sono consapevoli. Hanno anche contribuito ad uno scambio culturale che altrimenti in Kosovo non sarebbe stato possibile.

Cosa rimarrà in Kosovo quando gli internazionali lasceranno il paese?

Rimarranno molte cose: la polvere delle jeep bianche, i ristoranti da loro frequentati vuoti, molti giovani disoccupati… ma soprattutto rimarrà uno Stato, nella creazione del quale gli internazionali, nel bene e nel male, hanno giocato un ruolo indiscutibilmente centrale.

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