Simo Matavulj, maestro della narrazione
Vissuto nella seconda metà dell’800 lo scrittore serbo Simo Matavulj è stato un attento narratore della Dalmazia. Tutt’oggi è uno dei grandi autori provenienti dalla regione post-jugoslava rimasti sconosciuti ai lettori italiani. Una sua presentazione e un suo racconto
Il critico letterario serbo Jovan Skerlić (1877-1914) scrisse che Povareta di Simo Matavulj, un’opera che racconta la vita nella Dalmazia rurale, da sola sarebbe bastata ad assicurare fama al suo autore (gli scrittori aspettavano il giudizio di Skerlić con un sentimento misto tra timore e curiosità). Mentre leggeva un altro racconto di Matavulj, intitolato Oškopac e Bila, a Laza Kostić – un esteta sui generis e uno dei pochi eruditi tra i poeti – sembrava di osservare la Natività di Rembrandt, quel dipinto da cui emana il mistero della Fede e del Bene. Anche Andrić, ricorrendo a quello stile laconico che lo contraddistingueva, parlava di Matavulj con toni elogiativi, definendolo “maestro della narrazione”.
Le peculiarità della prosa di Matavulj non sfuggirono nemmeno ad Arturo Cronia (1896-1967), uno dei pionieri della slavistica in Italia (ricordiamo anche Giovanni Maver ed Ettore Lo Gatto) e ottimo conoscitore delle origini e dell’evoluzione della letteratura serba e croata. Professore instancabile, Cronia è anche autore della voce dedicata a Matavulj nell’Enciclopedia italiana Treccani in cui esprime un’osservazione – che trovo interessante e, al contempo, provocatoria – sullo stile del prosatore serbo, definito “maschio e incisivo”.
Simo Matavulj nacque nel 1852 a Sebenico (una città, come diceva lo scrittore stesso, “piena di anacronismi e superfluità che giovano all’animo poetico”) da una rinomata e benestante famiglia serba. In un libro dei suoi ricordi, rimasto incompiuto, intitolato Bilješke jednog pisca [Appunti di uno scrittore], guidato dal bisogno di spiegare da dove proveniva e in quale ambiente era cresciuto, Matavulj sottolinea il talento narrativo di sua madre. “A causa delle sfortunate circostanze familiari, mia madre aveva grandi preoccupazioni, che richiedevano la capacità di ragionare a mente fredda. Era sommersa dal lavoro, portandolo avanti con una determinazione virile e un impegno instancabile. Eppure, nonostante tutto, si contraddistingueva per quella immaginazione caratteristica degli abitanti di Sebenico, nella sua variante più elevata. Fu una donna allegra e una narratrice molto amata. Le storie che raccontava, d’inverno davanti al camino e nelle notti d’estate sul carro con cui viaggiavamo visitando le fiere della Dalmazia meridionale, furono il mio primo punto di riferimento, per di più, alcune di esse si cristallizzarono nel mio animo, per poi riemergere molti anni dopo, seppur in una forma più letteraria rispetto a quella in cui mi vennero trasmesse da mia madre…”.
Dopo la morte di suo padre, Simo, all’epoca studente del ginnasio, trascorse quattro anni da suo zio, abate del monastero di Krupa (esperienza che si rivelò di fondamentale importanza per la nascita del romanzo più celebre di Matavulj, che ancora oggi riesce a conquistare lettori, intitolato Bakonja fra Brne, in cui l’autore sostituisce l’ambiente monastico ortodosso, a lui vicino, con quello cattolico).
Avendo deciso di non indossare l’abito monastico, Matavulj si iscrisse all’istituto per la formazione degli insegnanti di Zara, diplomandosi nel 1871, per poi lavorare in diverse scuole dell’entroterra dalmata. Nel 1875 il suo animo irrequieto lo portò a Herceg Novi, dove insegnò l’italiano ai cadetti della scuola navale. Pur avendo suscitato sospetti delle autorità austriache per via delle simpatie che nutriva nei confronti dei fautori della rivolta di Krivošije [scoppiata nel 1869 nelle Bocche di Cattaro], Matavulj godeva di buona reputazione come insegnante, tanto che nel 1881 fu invitato a Cetinje, dove per un certo periodo insegnò la lingua francese, per poi essere ingaggiato dal principe Nikola come precettore di suo figlio, erede al trono, Danilo. Anche questo periodo è descritto in modo dettagliato negli Appunti di Matavulj che, al di là delle qualità letterarie, rappresentano un materiale documentario del tutto peculiare.
Lo scrittore si recò in Serbia per la prima volta nel 1887, ben presto però abbandonò il paese, non essendo stato visto di buon occhio dal re Milan Obrenović. Vi fece ritorno dopo l’abdicazione del re, rimanendovi fino alla morte, avvenuta nel 1908. Stimato e apprezzato, divenne membro dell’Accademia reale serba. All’età di quarant’anni si sposò con una giovane ragazza, Milica Stefanović, che lo scrittore, nelle lettere inviate a suo fratello, chiamava “gioia”. Soltanto un anno dopo il matrimonio, nel 1893, sua moglie morì. Successivamente, Matavulj si risposò con una donna benestante, Ljubica Nikolajević, che gli permise di dedicarsi interamente alla scrittura e ai viaggi.
Matavulj morì improvvisamente, in mezzo alla strada. Si narra che poco prima di morire lo scrittore avesse detto ad un passante che gli dispiaceva di dover concludere la sua vita così, “per strada”.
Nell’opus letterario di Matavulj, che conta una trentina di opere, il romanzo Bakonja fra Brne occupa un posto centrale (alla prima edizione, uscita nel 1892, fecero seguito altre due edizioni aggiornate – Matavulj non era mai pienamente soddisfatto di quanto scritto.) In quest’opera la voce autentica (mai banale) dei protagonisti si coniuga felicemente con il folklore (scevro da ogni patetismo) e con la capacità dell’autore di riconoscere il vitalismo degli abitanti della sua terra natia. Credo che Matavulj avesse l’orecchio fine e uno sguardo acuto quando si trattava di raccontare la Dalmazia e l’entroterra dalmata. Quando invece si allontanava da quell’ambiente – che, a quanto pare, conosceva perfettamente, sentendolo nel profondo del suo animo – era come se perdesse lo slancio narrativo, ossia quello che Cronia definisce uno stile “maschio e incisivo”.
Aveva ragione Jovan Skerlić a definire Povareta in quel modo. In questo racconto il fatidico si fonde col narrativo, infondendo vita in ogni vena dei protagonisti, in ogni loro parola pronunciata con parsimonia, in ogni pezzo dell’aspra terra isolana. Dopo aver prestato servizio nell’esercito austriaco, il protagonista del racconto torna sulla sua isola – un’isola ricca di sole, ma povera di frutti della terra – scoprendo che la sua promessa sposa è morta. Nella scena finale del racconto la madre del protagonista racconta al figlio di aver sognato la sua fidanzata morta, la povareta (un italianismo che deriva da “poveretta”), che nel sogno chiedeva al suo mancato sposo di prendere per moglie sua sorella. Un racconto che non ha nulla da invidiare a Guy de Maupassant (e non solo), le cui opere, come anche quelle di altri esponenti del realismo francese e italiano, Matavulj leggeva nella versione originale e a volte pure traduceva. Amava anche gli scrittori russi, dai quali aveva imparato molto.
Il romanticismo che contraddistingue il romanzo Uskok [Uscocco, 1892], ambientato in Montenegro – un’opera in cui Matavulj si sforza di essere uno scrittore socialmente e politicamente impegnato – è in contrasto con il Matavulj mediterraneo, attento osservatore della vita e dell’ambiente con cui era diventato un tutt’uno. Quanto invece al suo ciclo belgradese, Matavulj è molto più autentico nei racconti permeati della sua esperienza personale rispetto a quelli in cui cerca di “rimediare” al suo realismo ricorrendo alla finzione.
Osservando lo iato tra le traduzioni italiane della letteratura contemporanea della regione post-jugoslava e quelle delle opere degli autori appartenenti a epoche passate, va notato che Simo Matavulj è solo uno dei grandi autori provenienti da quella periferia d’Europa rimasti sconosciuti ai lettori italiani. La mancanza di continuità è più che evidente, ma di certo non è un problema circoscritto all’Italia. Ed ecco che torno a parlare di un’antologia immaginaria del racconto europeo da Boccaccio e Chaucer ai giorni nostri, un’antologia in cui non esisterebbero centri e periferie, solo la ricchezza della narrazione, dall’Atlantico agli Urali. In tale antologia sicuramente troverebbe posto anche Simo Matavulj.
Oggi invece di Matavulj non vi è traccia alcuna nei programmi di insegnamento della letteratura in Croazia. Non si studia nemmeno come autore di Bakonja fra Brne e soprattutto di Povareta, il racconto più bello mai scritto sulla vita nella Dalmazia di una volta, quando c’era poco da mangiare, ci si poteva permettere solo pochi vestiti e calzature, ma il cibo dell’anima non scarseggiava mai (questa esclusione di determinati scrittori dai programmi scolastici ormai da tempo è un’esclusione reciproca, parte integrante di un progetto politico miope che mira ad allontanare i paesi della regione gli uni dagli altri.) Ciò che invece contraddistingue il contesto croato è il fatto che negli anni Novanta, nella Croazia democratica, fu messo in atto un libricidio in cui fu dato alle fiamme e distrutto un fondo bibliotecario che contava svariati milioni di libri di moltissimi autori, tra cui anche Matavulj, scritti in alfabeto cirillico e in ekavo.
Per evitare che le riflessioni di cui sopra restino mere parole vi propongo la traduzione di un racconto di Matavulj intitolato Pilipenda. Dall’ambiente rurale della prima metà dell’Ottocento prorompe la questione della conversione forzata della popolazione ortodossa al cattolicesimo. Una conversione all’epoca appoggiata dalle autorità austriache, seguendo l’esempio della Serenissima. Matavulj affronta questo argomento – che ormai da tempo viene reinterpretato dalla storiografia croata e strumentalizzato nelle polemiche “culturali” serbo-croate – senza alcun tentativo di strumentalizzazione, cercando, da grande narratore, di rappresentare il dramma dell’uomo davanti a quel bivio che, solitamente con nonchalance, chiamiamo storia.
Pilipenda
(dalla Dalmazia meridionale)
Pilip Baklina dormiva, sul focolare, vestito, coperto con un abito, con la testa rivolta verso la flebile fiamma che lambiva il fondo di una pentola appesa ad una catena. Le radici di abete rosso bruciate facevano più fumo che fuoco; il fumo riempiva la piccola casa buia, si alzava verso di tetto di paglia, cercando di uscire attraverso l’unico buco nel tetto. Il vento respingeva il fumo all’interno, tanto che il volto di Pilip si accigliava e sotto i suoi baffi spinosi e brizzolati spuntavano grandi denti giallastri. Quando il vento si placava, il fumo ne approfittava per uscire, e allora si potevano scorgere: in un angolo, un letto riempito di paglia, tutto traballante; nell’altro angolo, un telaio e su di esso alcuni vestiti; verso la porta, una cesta sovrastata da una mensola inclinata con alcune stoviglie; intorno al camino, altre due o tre pentole e altrettanti tavolini a tre gambe. Questo era tutto ciò che avevano in casa!
Nel cortile, la padrona di casa, Jela Pilipova, una donna piccola e brutta, osservava due fasci di ceppi di abete rosso appoggiati su un muretto, tra i quali c’era anche qualche tronchetto di carpino bianco, che loro due, con grande fatica, erano riusciti a tagliare e raccogliere in due giorni sui monti sovrastanti il villaggio. Il vento muoveva il suo soprabito e i suoi capelli sciolti mentre sistemava i ceppi in modo da far sembrare il mucchio più grande di quanto non lo fosse effettivamente.
Kurjel, un piccolo asino dal mantello fulvo, ormai quasi completamente incanutito, con le gambe magre, ridotto a pelle e ossa, masticava all’interno di un recinto. Sopra di lui, in un piccolo solaio, c’era una balla di paglia d’orzo, il suo unico cibo per tutto l’inverno, e davanti a lui, per terra, una manciata di paglia, la sua colazione, che lui masticava lentamente, quasi un filo alla volta. Il suo sguardo mite si posava sulla padrona, per poi volgersi verso un gallo e due galline che stavano davanti a lui, accovacciati, guardandolo con occhi tristi. Evidentemente gli dispiaceva per loro, soprattutto per la bella e allegra Pirga, e avrebbe condiviso volentieri la sua paglia con loro, se solo avessero potuto mangiarla.
Un’altra ventina di casette simili e una decina di case più grandi, questo era il villaggio K. nella Dalmazia meridionale. Un villaggio sparso lungo l’estremità di una pianura ai piedi delle colline. Una piccola e antica chiesa ortodossa si era nascosta dietro al mucchio di case più compatto, al centro del villaggio. In fondo, invece, in un luogo isolato, si stava costruendo un grande edificio elegante, indubbiamente un tempio, più adatto ad una cittadina che al villaggio più povero di Petrovo polje.
Jela entrò in casa, sbattendo la porta. In quello stesso istante il vento soffiò più forte, la fiamma divampò e l’acqua nella pentola iniziò a bollire, al che Pilip si scosse, si sedette e si guardò intorno con occhi appannati. Solo quando si alzò per stiracchiarsi, si rese conto di essere un vero e proprio Pilipenda, come lo chiamavano i paesani, perché quando alzava le braccia sopra la testa, quasi riusciva a toccare la stiancia che ricopriva il tetto! Era un uomo di alta statura, dal lungo collo e dalla testa tonda. I pantaloni che indossava erano pieni di toppe e il cappello, un tempo di colore rosso, ormai annerito dalla muffa, gli scendeva fino alle orecchie a sventola. Quando sbadigliava sembrava che stesse per divorare la pentola.
Jela tirò fuori dalla cesta una ciotola di terracotta e la mise davanti al marito. Nella ciotola c’erano circa due manciate di farina di granoturco, più nera che gialla. Pilipenda fece un sospiro, scosse la testa, poi prese metà della farina e la versò nell’acqua bollente, mescolando la poltiglia con una mestola. Jela riportò indietro il resto, prese alcuni granelli di sale e li lasciò cadere nella pentola. Entrambi si misero a guardare la polenta che gorgogliava, divorandola con gli occhi. Infine, Pilipenda tolse la pentola dal fuoco, mestò la polenta e la versò in una ciotola di legno. Poi tutti e due uscirono di casa per lavarsi il viso.
Dopo aver fatto il segno della croce iniziarono a mangiare lentamente e attentamente, contando i bocconi l’uno all’altra con sguardi fugaci e furtivi, senza nemmeno rendersene conto. Quando ormai stavano per finire, Jela disse:
– Povera me, come farò!? Non ho la sciarpa! Come andrò domani all’eucaristia senza sciarpa?
Pilipenda scrollò le spalle, bevve un bel po’ d’acqua, poi uscì di casa. La donna lo seguì. Misero la soma all’asino, poi si fermarono come impietriti a osservare il carico, l’asino e le galline. Ogni tanto i loro sguardi vuoti e tristi si incrociavano, solo per un istante, per poi subito estraniarsi. Sembravano due statue, due personificazioni della fame e dell’impotenza! Finalmente la donna riprese a parlare, dicendo, quasi tra sé e sé:
– Poveri noi, come faremo? Per questo non otterrai nemmeno cinque monete, quanto serve per la farina, e io non posso andare all’eucaristia con la testa scoperta, diranno che anche noi ci siamo convertiti!
Pilipenda emise un suono che somigliava al ringhiare di un cane furibondo e, spalancando gli occhi insanguinati, fissò la moglie chiedendole a mezza voce:
– Vuoi che ci uniamo a quella… quella… religione?
– Dio non voglia! – disse Jela indietreggiando e facendo il segno della croce.
A quel punto Pilipenda entrò nel recinto dell’asino e prese la gallina migliore.
Jela, terrificata, gridò:
– Ma proprio Pirga? Vuoi vendere Pirga?
Pilipenda disse solo: Eh, sì! Poi prese un lungo bastone e se ne andò inseguendo l’asino.
La strada passava accanto alla nuova chiesa. Pilipenda udì una voce che lo chiamava dall’alto, sputò in direzione degli operai, per poi proseguire, affrettando il passo, tra i campi coltivati.
Quando raggiunsero la strada carrabile, Pilipenda si voltò indietro, osservando la montagna Dinara, imbiancata dalla neve: col suo sguardo triste sorvolò l’intero Petrovo polje, incupito da un freddo gelido e secco; osservò mestamente i villaggi disseminati lungo le estremità e gli parve di vedere, in alto sopra la pianura, quel terribile fantasma che ormai da quattro mesi falcidiava la popolazione.
Era l’inverno del 1843. Per via di un raccolto insolitamente magro, la carestia colpì la Dalmazia meridionale già in autunno. Alla vigilia di Natale solo in poche case c’era un po’ di grano, e siccome all’epoca circolavano pochi mezzi, il trasporto del grano dal mare verso le città era lento, e i commercianti spietati fissarono prezzi troppo elevati. I territori coperti da boschi e dediti alla pastorizia si arrangiavano in vari modi, vendendo la legna, nutrendosi dei derivati del latte, macellando e svendendo il bestiame, mentre nell’arido Petrovo polje non c’erano né boschi né bestiame! Solo dopo alcuni casi di morte per fame, il comune di Dernis, nel cui territorio ricadeva il Petrovo polje, iniziò a riparare e costruire le strade, ricompensando i lavoratori col granoturco. Un lavoratore gagliardo e laborioso, come Pilipenda, poteva guadagnare mezza occa di granoturco al giorno, quanto bastava per loro due, perché già verso la fine dell’estate entrambi i loro figli se n’erano andati nella regione costiera di Primorje per lavorare come braccianti. Tuttavia, alcune settimane dopo, il comune interruppe i lavori e le autorità della contea procurarono grandi quantità di granoturco, iniziando a distribuirlo alla popolazione in due modi: ai cattolici il granoturco veniva dato a credito (quindi, dovevano pagarlo con denaro, a rate, dopo il successivo raccolto), agli ortodossi invece veniva regalato a condizione che ogni capofamiglia che accettava il dono si convertisse alla chiesa uniate. La confusione si diffuse tra la popolazione. I primi subbugli si concentrarono perlopiù a K. dove non c’era altra religione che quella ortodossa. Il vecchio pope, ormai allo stremo delle forze, cercò di ricondurre il suo gregge alla ragione, ma la paura della fame spinse proprio i paesani autorevoli a convertirsi. Lo fecero il capitano, l’aggiunto, il çavuş (ossia il capovillaggio, il suo vice e il corriere incaricato della consegna di giornali ufficiali) e altri sette, otto paesani. “Aderire alla fede imperiale”, lo si chiamava così! Naturalmente, ai neo fedeli fu vietato l’ingresso nella chiesa ortodossa…
Pilipenda camminava verso la città seguendo il suo vecchio Kurijel, che vacillava sulle gambe magre, procedendo lentamente. Eppure Pilipenda non lo frustò nemmeno una volta, peraltro non l’aveva mai picchiato, perché gli dispiaceva per il suo vecchio e fedele compagno nella lotta per la sopravvivenza. Pilipenda provava compassione anche per la povera Pirga, che ad un certo punto iniziò a chiocciare e a sbattere le ali, cercando di liberarsi. Lui le disse: “Eh, mia Pirga, mi dispiace per te. Ma ancora di più mi dispiace per me stesso. Jela ti piangerà, dai!”.
Certo che Pilipenda pensava un po’, a modo suo, alla tragica sorte che toccò
a lui e agli altri, elaborando alcune brevi considerazioni al riguardo. Questi pensieri gli frullavano per la testa soprattutto quando, in compagnia del suo asino, si recava in città, allora si ritrovava assillato da un interrogativo. Pilipenda chiedeva a Dio:
– Dio mio, perché mandi la carestia contro gli esseri umani, quando a me, povero contadino, dispiace persino per il bestiame che soffre la fame!? E perché mandi in miseria proprio noi, contadini, che ti esaltiamo più di quanto non lo facciano gli stranieri, sazi e intemperanti? Eppure, ti ringrazio per aver permesso che noi, i più poveri, fossimo anche i più perseveranti nella fede, che tenessimo più all’anima che alla pancia!
Ad un certo punto Pilipenda udì dietro di sé un battito di passi; Jovan Kljako lo raggiunse per accompagnarlo lungo il cammino. Kljako, un vecchietto arzillo che pur avendo partecipato ad una rivolta, scoppiata a Sebenico venticinque anni prima, contro il vescovo Kraljević che voleva costringere i dalmati ortodossi ad aderire alla chiesa uniate, una volta giunto alla vecchiaia, aveva deciso di convertirsi! Salutò Pilipenda e aggiunse:
– Ah, povero Pilipenda, hai tanto freddo?
– Anche se dovessi assiderarmi qui, in mezzo alla strada, non mi dispiacerebbe!
– Ah povero, ma perché… perché non ti converti?
Pilipenda rispose:
– Perché non voglio, anche a costo di morire di fame! Ma anche voi non resisterete a lungo, nemmeno ottenendo l’intero Petrovo Polje in dono dall’imperatore!
Kljako, come anche i suoi amici, vedeva in Pilipenda la personificazione vivente del biasimo; si sforzò però di fare un sorriso e iniziò a giustificarsi:
– Dai, Pilipenda, sii ragionevole e stammi a sentire! Non l’abbiamo fatto spinti dalla rabbia, né tanto meno abbiamo intenzione di rimanere legati a quella eresia, solo… sai… finché non passa l’inverno, finché non riusciamo a sfamare i bambini e le famiglie… poi sarà facile!
Pilipenda sputò.
– Non so se sarà facile né come farete, ma so che nessuno mai riuscirà a smacchiare la vostra reputazione, finché l’ultima traccia di voi non scomparirà!
Kljako si accigliò, poi disse con tono tagliente:
– Pilipenda, stai parlando a vanvera, prima della Pasqua anche tu diventerai uniate!
Pilipenda si fermò gridando:
– Io ripongo fiducia nel mio Dio serbo! Se vuole aiutarmi, lo ringrazio, ma anche se non mi aiuta, lo ringrazio lo stesso perché, avendomi dato tutto, può anche portarmi via tutto, persino l’anima! E tu…
Kljako lo interruppe.
– Taci, Pilipenda, io professo la fede imperiale!
– Ah, bastardo! – urlò Pilipenda alzando il bastone… – aspetta che ti rinsaldo quella fede!
Kljako però scappò.
A quel punto Pilipenda, in preda all’ira, con tutta la forza diede una percossa a Kurijel. L’asino si fermò, girò la testa e rivolse uno sguardo triste al suo padrone, Pilipenda allora si vergognò e, travolto dal dolore, si sedette sul bordo della strada scoppiando in lacrime!