Armenia: la lunga fase post-bellica

Yerevan deve affrontare il dopoguerra del conflitto con l’Azerbaijan per il Nagorno Karabakh. A Bruxelles si va verso un accordo di pace ma l’aver perso la guerra mette il primo ministro armeno Pashinyan in una posizione attaccabile dai rivali politici interni

11/05/2022, Marilisa Lorusso -

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Nikol Pashinyan © Asatur Yesayants/Shutterstock

La fase post bellica in Armenia non è mai stata facile, e purtroppo non è l’allontanarsi dei giorni del conflitto a renderla meno difficile. Se lo scorrere del tempo può aiutare a guarire i lutti, non risolve le questioni che il conflitto in Nagorno Karabakh ha lasciato dietro di sé. In primis il conflitto stesso: se come auspicato nell’incontro trilaterale Armenia-Azerbaijan-Ue tenutosi agli inizi di aprile a Bruxelles si arriverà a un accordo di pace esso non sarà frutto di volontà reciproche per risolvere pacificamente il contenzioso, ma sarà il prodotto di una vittoria ed una resa, e per questo comunque il prodotto di una coercizione, con tutta la frustrazione che essa comporta.

Ma soprattutto quello che rende il percorso così difficile è che ancora gli scambi fra le popolazioni coinvolte nel conflitto rimangono molto scarsi. I confini sono chiusi, non ci si incontra, non ci si conosce, non ci si accetta. Gli altri, dall’altra parte della linea di un fuoco che ancora non tace del tutto, sono ancora per tanti cittadini dell’Armenia, del Karabakh, dell’Azerbaijan, il nemico. La retorica anche a livello di vertici politici non ha ancora cambiato i toni. Per cui la diffidenza è massima, la disponibilità a negoziare concessioni o compromessi è minima.

In posizione svantaggiata si trovano l’Armenia a il Karabakh, usciti sconfitti dalla guerra e con un quadro di diritto internazionale che non li favorisce. L’Azerbaijan ha recuperato territori che già la comunità internazionale gli riconosce come legittimamente propri.Nikol Pashinyan si trova a prendere realisticamente atto che Baku ha un argomento forte, quello dell’integrità territoriale peraltro già riconosciuta dall’Armenia nell’atto di fondazione della Comunità degli Stati Indipendenti del 1992. Il primo ministro armeno negozia quindi da una posizione di debolezza, rafforzata dal fatto che viene ostacolato nella negoziazione anche da un fronte interno.

Il dissenso che bolle

A differenza dei due predecessori capi dell’esecutivo Serzh Sargsyan e Robert Kocharyan, Pashinyan non è un karabakhi, non proviene dal Karabakh. È la figura che ha messo i due suoi predecessori all’angolo e per la cui rivoluzione sono finiti indagati. Ed è l’uomo della resa del novembre 2020 all’Azerbaijan. È la tempesta perfetta per la vecchia guardia pre-rivoluzionaria per additarlo come il disfattista pronto a sacrificare quel Karabakh che non è mai stato il suo bacino di forza.

"Dimissioni per il responsabile della capitolazione" è stato lo slogan che ha caratterizzato le proteste che hanno attraversato il paese quando si è firmato il cessate il fuoco. E lo stesso slogan è tornato adesso che quel cessate il fuoco si avvia verso una pace, con di conseguenza tutta una serie di questioni spinose da codificare come accordo fra due stati: i confini, il futuro del Karabakh, le vie di commercio e comunicazione.

Il dissenso verso Pashinyan si va rafforzando, come le proteste. Sono iniziate nei primi giorni di aprile, quando in Piazza di Francia, nella capitale Yerevan, la bandiera dell’Armenia è stata modificata e trasformata in quella del Nagorno Karabakh, che ha gli stessi colori ma un motivo bianco come una freccia che punta verso ovest, verso l’Armenia. La bandiera è poi stata ricolorata nella parte decolorata, fra le polemiche. È poi ricomparsa con il motivo bianco sul podio del parlamento armeno, issata dall’ex ministro della Difesa Seyran Ohanyan, mentre l’opposizione aveva appena annunciato che avrebbe boicottato le sedute del parlamento per recarsi in Karabakh. I peacekeeper russi non li hanno poi lasciati entrare, e l’incontro con gli omologhi secessionisti armeni si è tenuto al check point russo.

Le manifestazioni

Il 13 aprile scorso Pashinyan ha tenuto un discorso in cui ha ripreso ma con maggiore incidenza una questione già ventilata: invece di discutere dello status del Karabakh bisogna discutere delle garanzie di sicurezza per gli armeni che ci vivono. Questa volta ha detto apertamente che ci si aspetta dall’Armenia che abbassi le aspettative sullo status politico dell’exclave. Il 19 è andato poi a Mosca, e al ritorno ha precisato che nessun accordo verrà firmato che non sia prima discusso e approvato con gli armeni del Karabakh, la cui rappresentanza ha raggiunto a Yerevan Pashinyan al suo ritorno da Mosca.

Intanto la mobilitazione di risposta al discorso sullo status prendeva sempre più forma. Inizialmente le forze politiche che raccolgono Sargsyan, l’Alleanza dell’Onore, e Kocharyan, il Partito Armenia, si sono mosse autonomamente. Parallelamente alle forze politiche, due singoli veterani hanno lanciato uno sciopero della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione del Karabakh. Dal 25 aprile al primo maggio le manifestazioni si sono intensificate, e da maggio le due forze politiche – che non partecipano più ai lavori del parlamento – hanno unito i campi e hanno lanciato dimostrazioni che raccolgono un numero consistente di cittadini. Difficile avere una stima esatta, ma si parla di migliaia.

I metodi di lotta ricordano molto le strategie adottate dallo schieramento di Pashinyan nella cosiddetta rivoluzione di velluto che l’ha portato al potere, e lo scopo è anche simile: rovesciare il governo in carica. Solo che questa volta Pashinyan si trova dall’altra parte delle barricate che vengono erette nelle strade della capitale. Le parti si sono invertite e nelle piazze ora ci sono Sargsyan e Kocharyan, fatto questo che forse limita il potenziale rivoluzionario delle piazze stesse. Impedire quella che è percepita una nuova resa di territori e la cessione del Karabakh all’integrità territoriale azera è sicuramente una posizione largamente diffusa nella popolazione mentre rimettere al posto di Pashinyan la vecchia guardia di Sargsyan o Kocharyan molto meno. Non è nemmeno chiaro come – nel limite della possibilità di manovra armena – si proponga concretamente di portare avanti la negoziazione di pace diversamente da quanto sta facendo l’attuale governo.

Intanto fioccano i fermi durante le manifestazioni, con più di 200 manifestanti fermati solo il 2 maggio . I metodi della polizia non sono certo forieri di una de-escalation sociale, ed è ulteriore benzina sul fuoco. Le manifestazioni si concentrano a Piazza di Francia a Yerevan, dove un manifestante è morto di infarto il 6 maggio, ma si segnalano mobilitazioni anche in altre parti del paese. Un duro banco di prova per un governo che ha in mano questioni estremamente spinose in un contesto anche internazionale sempre più complicato e ostile agli interessi armeni.

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