Media in Turchia, il coraggio di Birgun
Dogan Tilic, direttore responsabile di "Birgun", nonché Presidente dell’Associazione Giornalisti Progressisti (CGD) e docente universitario, racconta la nascita, le difficoltà e il coraggio del quotidiano indipendente, oltre ad offrire un quadro della situazione dei media in Turchia
Lo scorso aprile "Birgun" ha compiuto il suo primo anno di vita, possiamo tracciare un bilancio di questa esperienza?
Se dovessimo fare un bilancio del primo anno di "Birgun", l’elemento più importante e positivo è che il giornale ha potuto resistere per un anno, è il successo più importante. Quando abbiamo fondato il giornale, da molte parti si diceva che non sarebbe stato possibile far vivere un giornale nato con un capitale striminzito e dall’iniziativa di quattro o cinque persone.
Ci sono state iniziative simili alla vostra in passato?
In passato lo scrittore Aziz Nesin aveva lanciato il progetto di un giornale fondato su diecimila soci ma il progetto è fallito prima di poter stampare la prima copia.
Qualche mese dopo l’uscita nelle edicole di "Birgun" si diceva che avrebbe chiuso ben presto ma adesso nessuno può dire lo stesso. Certo questo non significa che non ci siano problemi, anzi ci sono problemi molto seri, problemi economici. Fino ad ora il giornale è riuscito a rimanere in piedi grazie all’attaccamento delle persone che ci lavorano, molte persone lavorano senza un ritorno materiale. Sempre a causa di problemi materiali, nonostante sia passato un anno, non siamo riusciti a realizzare alcuni degli obbiettivi che ci prefiggevamo all’inizio: ci sentiamo nella situazione di chi è costretto continuamente a fuggire da una valanga incombente, per questa ragione non siamo riusciti a completare il processo di istituzionalizzazione del giornale. Ogni giorno cerchiamo di racimolare i soldi per la carta, per la tipografia, per garantire l’uscita del giornale il giorno successivo. Ogni mese cerchiamo di pagare i giornalisti, le bollette del telefono. Per queste ragioni non siamo ancora riusciti a realizzare alcuni obbiettivi importanti, per esempio l’elezione del direttore responsabile da parte dei dipendenti, garantire una formazione continua ai corrispondenti, rafforzare la struttura democratica del giornale. Nonostante questo il giornale ha come obbiettivo un modello ideale che è espresso dalla nostra costituzione che è affissa alle pareti dei nostri uffici. Ogni lavoratore, che è anche socio del giornale, leggendola ogni giorno ha la possibilità di ricordarsi le ragioni del suo impegno ed ha il diritto di spronarci a raggiungere quegli obbiettivi.
Lei ha detto che "Birgun" è un giornale senza padroni, chi sono i proprietari?
Ci sono circa 4.000 azionisti, molti dei quali posseggono una sola azione, del valore inferiore ai cento dollari. Ci sono studenti universitari, operai, e poi ci sono anche persone che possiedono più azioni, dieci, quindici.
La distribuzione per voi rappresenta un problema serio…
Certo la distribuzione è il più importante dei problemi per un giornale in Turchia. La rete di distribuzione ha della caratteristiche che rendono molto difficile la vita ai giornali di medie dimensioni. Ci sono circa 85.000 punti vendita nel Paese. All’inizio noi stampavano circa 100.000 copie e ne vendevamo circa 30.000 ma per un giornale come il nostro una resa quotidiana di 70.000 copie significava il rischio di fallimento nell’arco di una settimana. Per questa ragione, e per abbassare i costi di stampa, siamo passati a stampare solo 35.000 copie. Questo significa che in almeno 50.000 punti vendita il nostro giornale non arriva e negli altri ne arriva solo una copia. Ovviamente le vendite sono calate ma ora, pur vendendo solamente 15.000 copie, dal punto di vista prettamente economico la situazione è migliorata. Abbiamo poi pensato di rimediare a questi problemi lanciando una campagna abbonamenti. Dal punto di vista delle entrate è meno conveniente perché ci sono notevoli spese di distribuzione, ma perlomeno non abbiamo perdite e non corriamo il rischio di avere delle rese. Attualmente abbiamo circa 2.000 abbonati. Inoltre negli ultimi tempi abbiamo cominciato a vendere il giornale a metà prezzo nei campus universitari (250 centesimi/kurus).
Come è nato il progetto "Birgun"?
Al progetto partecipano persone provenienti da ambienti diversi. Io per esempio, che sono stato uno dei promotori dell’iniziativa, da anni pensavo e scrivevo sulla necessità di un giornale simile, anche in qualità di presidente di diverse associazioni di categoria. C’è poi il mondo delle associazioni dei lavoratori, i sindacati degli insegnanti, ambienti che da sempre si lamentavano di non vedere rappresentato nel mondo dell’informazione la loro realtà e i loro problemi. A questo proposito c’è un episodio eloquente e cruciale: nel 1995 ad Ankara, lavoratori e dipendenti pubblici con i loro sindacati, organizzarono una manifestazione imponente alla quale parteciparono 500.000 persone. Il giorno successivo sugli organi di informazione non c’era traccia della manifestazione, forse ne aveva parlato la CNN International o i giornali stranieri ma la stampa turca no.
Un episodio che rafforzò la convinzione che vi fosse la necessità di un giornale diverso. I rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori, della società civile, un gruppo di giornalisti si riunirono ponendosi la domanda " C’è bisogno di un giornale di questo tipo, vorreste un giornale così?" e fecero una ricerca. Alla fine pubblicammo una dichiarazione accompagnata da 100 firme nella quale si diceva "Si, vogliamo un giornale diverso". In seguito lentamente con le persone disposte ad acquistare le azioni abbiamo accumulato un piccolo capitale ed è cominciata la nostra avventura.
Qual è la politica editoriale di "Birgun"?
La costituzione di cui parlavo prima precisa la politica editoriale del giornale. In modo chiaro si scrive che facciamo un giornale che sostiene l’idea di un mondo più libero, più vario, più giusto. Certo è un giornale di sinistra, quindi le problematiche del mondo del lavoro hanno per il giornale un rilievo particolare. In passato tutti i giornali turchi avevano una pagina dedicata ai sindacati dei lavoratori, era una caratteristica comune a tutti i giornali. Poi lentamente questo spazio ha cominciato a ridursi ed al suo posto hanno cominciato ad apparire le pagine dedicate alle notizie della borsa. Noi abbiamo scelto di invertire questa tendenza: ogni giorno vi è la pagina "Vita lavorativa" dedicata al mondo del lavoro. Cerchiamo però di fare un giornale aperto a tutte le opinioni, fondato sulla libertà di espressione, polifonico. E’ particolarmente importante poi dare spazio a quelle voci che solitamente sono condannate al silenzio, le voci delle donne, il mondo dell’ecologia, i diversi gruppi etnici. Ad esempio rispetto alla questione armena, uno dei nostri collaboratori (Hrant Dink, ndt) è armeno e forse è uno dei più autorevoli esponenti della comunità.
Nel fondare "Birgun" avete tenuto conto di analoghe esperienze in Europa?
Io sono anche vice-presidente dell’Unione dei Giornalisti Europei, conosco bene il mondo della stampa internazionale, inoltre lo seguo anche dal punto di vista accademico. Purtroppo nel mondo ci sono stati molti tentativi di esperienze simili alla nostra, ma in genere non hanno avuto grande successo. Ad esempio in Germania c’è un giornale di proprietà di una cooperativa, la Taz, ma anche loro sono continuamente in difficoltà, lanciano campagne come "La Taz deve vivere!". L’ultima campagna ha proposto l’acquisto di azioni per 5.000 euro. Certo i soldi che la Taz riesce a raccogliere in Germania sono per noi un traguardo impossibile. Anche "Le Monde" e "The Indipendent" sono nati con la stessa logica ma col tempo si sono trovati costretti a vendere al grande capitale. Sono quindi molto pochi gli esempi di giornale indipendenti al mondo. Noi preparando questo progetto abbiamo tenuto presente diverse esperienze: ad esempio quella di un quotidiano sud-coreano che elegge il direttore responsabile scegliendolo tra tutti i dipendenti che abbiano almeno dieci anni di esperienza di lavoro.
Certo ci sono poi giornali che sono direttamente legati ad un partito politico. Noi siamo stati particolarmente attenti ad evitare questo genere di relazioni organiche. In genere si dice che "Birgun" è il giornale dell’ODP (Partito della Libertà e della Solidarietà) ma in realtà nell’ultimo congresso generale del Partito la mozione che proponeva di sostenere "Birgun" è stata bocciata. Ripeto, noi cerchiamo con molta attenzione di non diventare il quotidiano di un partito politico.
Veniamo ora alla situazione della stampa turca nel suo complesso. Si vendono molti quotidiani in Turchia, si legge molto?
No, non credo. Non possiamo dire che in Turchia si legge molto. E’ una tendenza analoga a quella che si registra sul piano internazionale, vi è un calo delle vendite. In Turchia si vendono mediamente 4.000.000 di quotidiani al giorno, una cifra che si è potuta raggiungere anche con una serie di campagne promozionali cominciate 4/5 anni fa. In realtà se facciamo un confronto con gli anni ’60, un periodo in cui la popolazione turca era di 35 milioni e vi erano circa 100.000 laureati nel paese, si vede che nonostante tutto il numero di quotidiani venduti non era molto diverso da quello attuale, non c’è stato quindi un miglioramento significativo.
Ora ci sono 75.000 milioni di abitanti e si vendono circa 4 milioni di copie, non è molto. Gran parte dei quotidiani più venduti, attualmente il più venduto è "Posta", sono giornali tabloid che danno molto spazio alle fotografie ed alle notizie sensazionali. Certo anche i giornali più venduti in Europa hanno queste caratteristiche, puntano molto sulla sensazione. Per questa ragione credo che la tendenza che si registra attualmente in Turchia sia in linea con quanto accade nel resto del mondo. C’è però una differenza importante: i proprietari dei grandi giornali posseggono spesso contemporaneamente più quotidiani, riviste, televisioni, siti internet. Ad esempio "Hurriyet", "Milliyet", "Posta" e "Radikal" appartengono tutti allo stesso gruppo, il gruppo Dogan ed i lavoratori, i giornalisti, le tipografie, sono tutti legati allo stesso centro. Il gruppo poi ha un’agenzia di informazioni, Dogan Haber Ajansi, che raccoglie informazioni in tutto il Paese e poi le riversa in un unico grande "serbatoio". Questa riserva di informazioni viene poi usata indifferentemente dai giornalisti di "Posta", "Hurriyet", "Radikal", "Milliyet". In questo modo si arriva ad un impressionante abbattimento dei costi. Ad esempio dicevamo di "Posta", in questo giornale vi lavorano al massimo quindici giornalisti. Per giornali come il nostro invece servono almeno 100 persone.
Dal punto di vista della proprietà qual è la situazione della stampa turca?
Attualmente il gruppo più importante, credo controlli il 60% dei media del paese, è appunto il gruppo Dogan. Il rivale più agguerrito è il gruppo del quotidiano "Sabah". Dopo la crisi delle banche degli anni scorsi, la vecchia proprietà è fallita ed il proprietario di "Sabah" è cambiato. In ogni caso questo gruppo non ha un potere comparabile a quello del gruppo Dogan. Un altro gruppo importante è quello della Holding di Karamehmet, che possiede tra gli altri "Aksam", "Tercuman", alcuni quotidiani sportivi e televisioni come Show TV. In sostanza in Turchia vi è un gruppo che controlla il 60% del mercato e poi altri gruppi minori. Lo spazio per i quotidiani indipendenti è ridotto, molto ridotto.
Recentemente è stata presentata una legge che permette l’ingresso di una quota di capitale straniero nella proprietà delle televisioni…
Sì, la legge è stata rinviata in Parlamento dal Presidente della Repubblica e quindi attualmente non è possibile vendere quote di televisioni ad acquirenti stranieri. Il Gruppo Dogan ha però stabilito recentemente contatti con la Deutsche Bank, la CNNTurk poi ha relazioni con la Time Warner. Per quanto riguarda i giornali non è possibile, credo, l’ingresso di capitali stranieri ma per quanto riguarda le Tv si sta andando in quella direzione.
Recentemente l’Osservatorio sui Balcani ha pubblicato un rapporto sui media in Croazia che evidenziava la forte presenza di capitali tedeschi…
Non solamente in Croazia, anche nel resto dell”Europa centro-orientale, nelle ex repubbliche sovietiche, nella fase di transizione si è creato un vuoto riempito dai grandi gruppi internazionali. Credo che esista un rischio simile anche in Turchia, se lo possiamo considerare un rischio. Ad esempio ora vi è stato il caso il caso di Star Tv. Dopo il fallimento della banca che ne aveva la proprietà la televisione è passata sotto il controllo dello stato. Ora ci sono molti gruppi stranieri interessati all’acquisto ed aspettano solo che vi siano le condizioni legali per farlo. C’è un interesse rivolto ai media turchi che proviene sia dai capitali stranieri che dai grandi gruppi turchi. Credo si stia consolidando la tendenza alla cooperazione tra il capitale locale e quello internazionale. Per il momento però non è possibile confrontare la situazione della Turchia con quella della Croazia o di altre realtà dell’Europa orientale.
Un aspetto interessante è rappresentato dalla realtà della stampa locale. In molte città di provincia turche vi è un gran numero di quotidiani locali, magari di poche pagine, apparentemente sembra essere un settore molto dinamico…
Ci sono però pochi esempi di città in cui i quotidiani locali sono realmente influenti. Il più importante è Izmir, dove c’è il centenario "Yeni Asir" (Nuovo secolo), ed anche Bursa. Al di fuori di queste due realtà, la stampa locale è l’espressione delle relazioni tra il mondo della politica e dell’economia a livello locale. Quotidiani di due o tre pagine, senza vere notizie, che sopravvivono grazie alla pubblicità dei commercianti ed imprenditori . Non esiste in Turchia una solida tradizione nel campo della stampa locale, comparabile a quanto esiste in Europa. La stampa locale turca vive un serio problema di qualità, di formazione. Periodicamente come sindacato dei giornalisti, come associazione dei giornalisti, facciamo dei seminari di formazione, da tutti i punti di vista, da quello della qualità a quello della struttura finanziaria, la stampa locale turca lascia molto a desiderare.
Lei è anche il Presidente dell’Associazione dei Giornalisti Progressisti (CGD). Quali sono le condizioni di lavoro del giornalista in Turchia?
Dal punto di vista delle retribuzioni possiamo riassumerle in questo modo: c’è un gruppo ristrettissimo, le star dei media, che guadagna cifre astronomiche, che non è nemmeno possibile conoscere. Si parla di 60/70.000 dollari al mese, certo rappresentano una porzione ridottissima della popolazione dei giornalisti. C’è poi un secondo gruppo, anch’esso ridotto, di giornalisti che guadagnano circa 2/3.000 dollari al mese ma la gran parte dei giornalisti lavoravano con stipendi molto bassi, anzi molti di loro sono giovani che con lo status di stagisti lavorano senza percepire alcuno stipendio. Dal punto di vista della presenza dei sindacati nei giornali, essi praticamente sono inesistenti. A differenza del passato, gli imprenditori che sono entrati nel settore dei media a partire dal 1980 non avevano nessuna esperienza ed erano estranei al mondo dell’informazione ed una delle prime cose che hanno fatto è stata allontanare le organizzazioni sindacali dai giornali. Ad esempio Dogan quando ha acquistato "Milliyet" ha posto un ultimatum: o lasciate il lavoro o il sindacato. Attualmente solamente i dipendenti di Anadolu Ajansi (l’agenzia di stampa ufficiale) sono sindacalizzati, per il resto nessun altro. Per quanto riguarda le associazioni di categoria, esse sono impegnate proprio nel tentativo di aumentare la presenza dei sindacati nei giornali. Un lavoro però molto difficile perché l’adesione ad un sindacato viene percepita come sinonimo di rischio licenziamento.
Per quanto riguarda la libertà di espressione ….
A questo proposito c’è un’espressione che mi piace molto: se sei disposto a pagarne il prezzo, sei libero fino in fondo.
Il prezzo è alto?
Quando si parla di libertà di espressione facciamo riferimento a due possibili fonti di limitazione. La prima è lo Stato e le sue pressioni. Così come accade in tutto il mondo anche in Turchia ci sono state pressioni, lo Stato ha fatto sentire la sua presenza. In alcuni periodi i giornalisti sono stati incarcerati, uccisi. In Turchia, soprattutto a metà degli anni ’90, molti giornalisti sono stati uccisi, in genere nel quadro della questione curda e della situazione di conflitto che esisteva all’epoca. Ci sono stati poi argomenti tabù, la questione curda, quella armena, l’esercito, scrivere di queste cose non è facile ma negli ultimi anni è possibile dire che praticamente tutti questi tabù sono stati infranti ed è stato allargato lo spazio di libertà. Uno spazio di libertà che non si limita solo all’aspetto legislativo ma è legato al più generale consolidamento di un clima democratico. Il consolidarsi in ampi strati della società della convinzione che di un argomento specifico si può discutere e parlare, permette che di questo argomento si possa effettivamente scrivere e parlare, quasi indipendentemente dalle leggi.
Tuttavia mentre stiamo assistendo ad una riduzione delle pressioni provenienti dallo Stato, stanno invece aumentando quelle provenienti dalla proprietà. Un fenomeno che forse rischia di produrre una censura più pericolosa e seria. Ad esempio, se il proprietario del giornale è coinvolto nella privatizzazione di una qualche industria, il giornalista delle pagine economiche del suo giornale, anche se giudicasse negativamente questa privatizzazione, non potrebbe scriverlo. Credo si possa dire che attualmente l’intreccio tra il mondo dei media e quello della politica rischia di produrre una pressione più pesante di quella che potrebbe arrivare dallo Stato. A metà degli anni ’90 facevo parte di molte associazioni di categoria ed in quel periodo arrivavano molte delegazioni dall’estero ed io ero costretto a raccontare che per quell’anno c’era stato un certo numero di giornalisti incarcerati o uccisi. Oggi fortunatamente non devo più raccontare cose simili ma come ho detto adesso c’è una pressione che proviene da un’altra parte.
In tempi recenti poi il governo ha varato una Legge per la Stampa, alla cui elaborazione abbiamo partecipato anche noi come associazioni di giornalisti. Se la confrontiamo con quella vecchia, questa è una legge molto più democratica, L’elemento più interessante è che non esiste più il pericolo di pene detentive per i giornalisti. Purtroppo però dopo questa legge, è arrivato il nuovo codice penale nel quale gli articoli 25/26 prevedono di nuovo pene detentive per i giornalisti. Articoli che nelle intenzioni sono stati pensati per difendere i diritti dell’individuo di fronte allo strapotere dei media. Una delle conseguenze però è che questa legge introduce delle limitazioni alla libertà di espressione.
A proposito del nuovo codice penale, nei mesi scorsi le associazioni dei giornalisti hanno avuto un ruolo di primo piano nell’ottenere il rinvio della sua entrata in vigore, che è avvenuta poi il 1° giugno scorso. Qual è il suo giudizio?
In realtà il Codice Penale recentemente entrato in vigore è praticamente lo stesso, per quanto riguarda la stampa non ci sono state modifiche importanti, anzi in generale possiamo dire che non ci sono stati cambiamenti rispetto alla precedente versione perché il Presidente della Repubblica non ha ancora approvato le modifiche apportate. In questo nuovo Codice Penale sono contenuti alcuni concetti che probabilmente sono presenti nei codici penali di tutti i paesi del mondo, "interessi nazionali", "sicurezza nazionale". Sono però concetti molto vaghi: chi li precisa e rispetto a che cosa? Se nella storia recente di un paese ci sono stati esempi negativi, se la cultura democratica non si è sufficientemente consolidata, il rischio è che un giudice possa, in base a questi concetti, sostenere facilmente che si sono scritte delle cose che minacciano gli interessi nazionali.
Lei è stato uno dei promotori e firmatari dell’appello che il 15 giugno scorso 150, fra intellettuali, artisti ed imprenditori, hanno presentato in una conferenza stampa. Un appello rivolto al PKK ed anche al governo. Come è nata questa iniziativa?
Se guardiamo ai nomi dei firmatari, vediamo che molti di loro sono presidenti ed esponenti della società civile, dei sindacati, delle organizzazioni di categoria. Io da anni scrivo notizie anche per l’agenzia di stampa spagnola e per anni ogni giorno ho avuto davanti agli occhi notizie relative a scontri e morti e questa situazione è durata quindici anni. Da alcuni anni viviamo un periodo tranquillo ma negli ultimi tempi siamo costretti a constatare che tutto sembra ricominciare di nuovo, ogni giorno arrivano notizie di scontri e di morti e non è possibile non parlare di questo. Ci è sembrato che fosse necessario fare qualcosa perché da un certo punto in poi parlare non serve più a niente. Io sono stato l’unico giornalista turco ad essere in Jugoslavia tra il 1990 ed il 1992. Da un certo momento in poi la guerra emargina ogni parola, ogni discorso razionale, da quel punto in poi qualunque parola perde di significato, nessuno vi ascolta, la macchina della guerra una volta in moto prosegue per conto proprio. Per questo abbiamo deciso di dire qualcosa prima di arrivare a questo punto, abbiamo detto cose semplici, elementari, che possono essere facilmente condivise da tutti, poche righe ma chiare: che il PKK deponga le armi e cessi le attività militari senza condizioni e che il potere politico muova dei passi in direzione di una soluzione del problema. Questi due elementi non devono escludersi reciprocamente. Passi che è necessario fare per evitare che si rivivano le stesse situazioni che abbiamo vissuto nel recente passato.
Quali reazioni avete avuto?
Le reazioni sono state positive, soprattutto da parte dei curdi, da DEHAP, da Leyla Zana, anche da alcuni del PKK. Da parte del governo non ci si aspettava delle reazioni ufficiali ma sono arrivate delle reazioni positive ufficiose da parte di alcuni importanti esponenti politici… vedremo.