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Anila Rubiku: cappelli e fagioli
Cappelli, pavimenti coperti di fagioli e fazzoletti ricamati. Anila Rubiku è un’artista albanese che lavora tra Milano e Tirana. Una sua installazione è in questi giorni esposta presso il Padiglione albanese della Biennale di Venezia. Un’intervista
Anila Rubiku, classe ’70, è un’artista albanese che vive e lavora tra Milano e Tirana. Mescolando tecniche diverse tra loro e intraprendendo dei community project, rivolge la sua attenzione ai problemi delle donne in Albania e in Italia, all’identità dei migranti, ai ruoli sessuali nelle società in cui vive. Rubiku è presente attualmente nel Padiglione albanese della Biennale di Venezia con un’installazione dal titolo "Other countries, other citizenships" dove riflette sull’identità culturale, nazionale, linguistica e individuale dei migranti alle prese con l’eredità del proprio Paese d’origine e il nuovo Paese d’adozione.
Quali sono i temi che preferisci trattare nei tuoi lavori?
La maggior parte dei miei lavori sono legati alla casa, al viaggio e alle donne. Quest’ultimo in particolare è un tema che mi è molto caro perché noi, in Albania, non abbiamo avuto una rivoluzione sessuale, un’emancipazione delle donne come avvenuto nell’Europa occidentale.
Le donne della mia generazione hanno molto sofferto questa condizione. Tra l’altro la situazione è stata appesantita dal vivere come donna albanese in Italia, e dall’essere considerata una potenziale prostituta, come stereotipo vuole.
Ho lavorato con le donne, ma meno di quello che avrei voluto, con le donne albanesi. In Israele ho lavorato con un gruppo di donne dell’Etiopia. A Durazzo invece ho fatto un progetto con 100 fazzoletti di seta, facendo ricamare alle donne i nomi di 100 donne che hanno contribuito al progresso dell’umanità in vari settori. A ciascuna spettava ricamare il nome e leggerne la storia. Stimolando così un tipo di educazione, di emancipazione, in una maniera piacevole, senza infastidire con lo studio obbligatorio.
Questo tipo di community project e il ricamo, sono cose che durano nel tempo, comportano la socializzazione, nascono cose nuove, ci si conosce, si entra in un’altra dimensione, e molte cose, molte convinzioni cambiano.
Quali i nomi di donne ricamati sui fazzoletti?
Loro non avevano la più pallida idea di chi fosse Marie Curie ad esempio, non conoscevano donne importanti della storia che hanno lasciato tracce in tutti i campi, dalla letteratura ai diritti umani, alla scienza, allo sport, alle arti, alla musica ecc.
Per individuare chi fossero le più significative e le più facili da interpretare per loro, ho svolto una ricerca di circa 2 anni.
In seguito ho allestito l’installazione in una galleria. Ho riempito il pavimento di fagioli, che era il cibo principale degli albanesi poveri negli anni ’80. Alcune donne rimasero stupite, dicendomi: “Ma come, metti il cibo per terra?” La mia intenzione era fare loro capire che queste donne da sole non contavano, proprio come è inutile un fagiolo solo, ma se ne riempi il pavimento, diventa una cosa fastidiosa, che non puoi non notare.
C’è molta Albania nelle tue opere nonostante tu da anni viva all’estero…
Sì decisamente. Trovo molti spunti in Albania. A dire il vero, penso di ritornare in Albania, a viverci. Penso che ci sia molto spazio per lavorare in questo settore. Vorrei lavorare in Albania ed esporre i miei lavori all’estero. Di conseguenza mi considero un’artista albanese.
Quindi trarre ispirazione in Albania, ma rimanere su un mercato artistico non albanese?
Sì, perché il mercato artistico albanese è molto limitato. Non esiste nessun tipo di collezionismo. Ci sono pochissimi spazi espositivi, musei. La corruzione regna ovunque, e nell’arte, tutto questo è ancora più visibile che altrove. Non esistono finanziamenti.
Con quale lavoro ti sei presentata alla Biennale di Venezia?
E’ un lavoro intitolato “Other countries, other citizenships ”. Tutti gli albanesi che vivono all’estero di norma, tranne Anri Sala, ci occupano molto dei temi dell’emigrazione. I miei lavori non hanno avuto a che fare con le migrazioni tout court, ma con il femminismo, con l’identità.
Mi interessa quella condizione ibrida che viene a crearsi nell’identità di chi emigra, il concetto della nazionalità. Cerchi di assimilarti a un certo Paese. Finisci per rinnegare la tua identità, finisci per allontanare da te stesso quello che in realtà sei.
Questo riguarda innanzitutto gli albanesi. Ho l’impressione che gli albanesi non abbiano il senso della nazionalità come le altre nazioni, probabilmente perché il nazionalismo durante il comunismo ha portato anche tanta povertà culturale ed economica.
Naturalmente questo è molto più forte in Italia, mentre non l’ho notato per esempio negli Stati Uniti o nel Regno Unito, società sicuramente più aperte e più meritocratiche di quella italiana.
Se in agosto si prende un aereo per andare a Tirana, ci si trova a viaggiare con le giovani madri albanesi che parlano in italiano ai propri figli. Ho fatto una ricerca su questo. Tutti gli albanesi che ho incontrato, che sono emigrati nei Paesi vicini all’Albania, non parlano in albanese ai propri figli, ma nella lingua del Paese che li ospita, spesso e volentieri anche quando tale lingua non la conoscono bene. Mi sembra una voglia irrazionale di sbarazzarsi della propria identità, della propria nazionalità.
Cosa intendi per nazionalità?
La lingua è una ricchezza. Per me nazionalità non ha a che fare con nazionalismo, ma è più che altro identità culturale, conservare quello che hai e aggiungere altre identità su quelle che hai già. Non puoi odiare ciò che ti appartiene e rinunciarvi per diventare qualcosa che in realtà non sei. Vogliamo assomigliare agli altri quando il mondo è pieno di altri.
Questo è un problema che ha caratterizzato più che altro l’immigrazione albanese degli anni ’90. Pensi che sia ancora attuale?
Penso di si. Non è un problema solo degli albanesi. Penso che gli albanesi si sentano fuori posto in un Paese che accetta con difficoltà le culture diverse. Il fatto che in Italia la legislazione sull’immigrazione sia incerta e cambi di anno in anno, fa il resto.
Come hai scelto di rappresentare questa problematica?
Ho fatto ricamare 60 cappelli da uomo ad un gruppo di donne che sono in esilio, che non sono italiane ma che vivono in Italia. Sui cappelli abbiamo ricamato, io insieme a loro, i miei disegni e racconti.
Come hai fatto a trovare queste donne?
E’ stato un po’ un calvario. Avevo conosciuto una comunità albanese a Casalmonferrato, provincia di Alessandria e avevo chiesto loro di partecipare a quest’idea. Ma le donne albanesi che sono riuscita a incontrare, alla fine tutte volevano farsi pagare per partecipare al progetto.
Non era questa l’idea del mio progetto. Finalmente noi donne albanesi, potevamo essere conosciute per una cosa bella: presentare un progetto d’arte alla Biennale di Venezia, nel padiglione Albania. Essere conosciute anche nella cultura contemporanea.
Loro semplicemente non hanno accettato. Solo qualcuna ha partecipato, quindi sono stata costretta a orientarmi verso altre donne, non albanesi. Nonostante la mia idea iniziale fosse quella di lavorare con donne albanesi.
In fondo ho pensato che anche altre donne migranti hanno le stesse problematiche che hanno le albanesi. Tutte sono delle donne, che passano inosservate nella società italiana. Vengono qui per lavorare, ma portano con sé anche la loro cultura, non solo la loro sofferenza, o le cose negative.
Come è stato rappresentato questo lavoro alla Biennale di Venezia?
Per vedere l’installazione a Venezia si deve camminare tra i cappelli, e serve tempo per scoprire e leggere i ricami. Si fa un po’ fatica e si ha paura di calpestare gli altri cappelli.
L’idea è proprio quella di fare attenzione mentre scopri questo lavoro a non schiacciare il capello di fianco.
Normalmente un cappello copre una testa e sotto un capello ci sono delle idee. L’installazione è composta anche da un altro lavoro, sono 90 appendiabiti di pantaloni da uomo appesi al muro. Su ogni gruccia è incisa una lettera e tutte insieme compongono la frase: The person who disowns his own language in order to adopt a different one changes identity and disillusions.
Gli appendiabiti servono per appendere i vestiti che normalmente stanno chiusi in un armadio. Li metti fuori solo quando ne hai bisogno ed è la stessa cosa con i migranti. Stanno lì, nell’armadio e aspettano che uno li vada a prendere. Che qualcuno si ricordi di loro e che possano tornare utili a qualcuno.