Kosovo, la violenza nascosta
Sono più di mille gli episodi di violenza domestica accertati dalla polizia in Kosovo ogni anno. In quattro casi su cinque, le vittime sono donne. Le cifre ufficiali non dicono però tutto sulle dimensioni effettive del fenomeno: solo una piccola parte delle vittime trova il coraggio di denunciare la violenza subita tra le mura di casa
Articolo disponibile anche in macedone e albanese.
Stando ai dati forniti dal Dipartimento per i Diritti Umani della Polizia del Kosovo, nel periodo 2002-2009 sono stati accertati 9.772 casi di violenza domestica. Più di mille episodi ufficiali all’anno per una popolazione che, secondo i dati emersi dal recente censimento, si colloca ben al di sotto dei due milioni di unità.
In poco meno dell’80% dei casi le vittime della violenza che si consuma tra le mura di casa sono donne, mentre nove volte su dieci a commettere violenza è una persona di sesso maschile. Più della metà delle volte alla violenza sulla donna si associa quella a danno dei figli.
Il fenomeno è più diffuso e persistente nelle aree rurali del Paese, dove non solo il livello di istruzione, ma anche le condizioni economiche sono notevolmente inferiori rispetto ai centri urbani. La fine del conflitto armato ha portato con sé nuove opportunità nelle città, ma anche una diffusa povertà e disoccupazione nelle campagne. In questo contesto, gli uomini fanno spesso fatica ad adempiere al ruolo di “responsabili” della famiglia imposto dalla tradizione e finiscono per mostrare il loro potere attraverso comportamenti violenti contro le proprie mogli e i figli.
Le forme in cui la violenza domestica si manifesta sono purtroppo varie e vanno dall’isolamento ad atti di violenza fisica, sessuale, psicologica ed economica. Le conseguenze generate dalla violenza domestica sono molto gravi sia per le vittime che per l’intera comunità. Esse comprendono seri problemi di salute e di carattere psicologico per le vittime, l’impossibilità per le famiglie di assistere i figli, fino ad arrivare a casi di suicidio e/o omicidio.
Assieme al traffico di essere umani, quella di stampo domestico si configura, pertanto, come una delle forme più diffuse di violenza contro donne e bambini nel Paese. Anche per questo motivo, secondo l’UNDP, il Kosovo detiene, a pari merito con la vicina Albania, il triste primato di avere l’indice di sviluppo di genere più basso di tutta la regione balcanica.
La punta dell’iceberg
Le cifre ufficiali sono sufficienti a certificare l’esistenza del problema, tuttavia non dicono tutto sul fenomeno. Come quantificare i casi di violenza non denunciati alle autorità?
Sorta nel 2000, il Kosovo Women’s Network (KWN) è un’organizzazione ombrello composta da più di 80 associazioni nate per difendere i diritti delle donne. Nel 2008 la rete ha condotto uno studio intitolato “La sicurezza inizia a Casa” secondo il quale il 43% della popolazione kosovara è stato vittima di violenza domestica almeno una volta nella vita. Dallo studio emerge anche che la violenza domestica a danno delle donne e dei loro bambini è largamente sottostimata dalle autorità dal momento che le vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, non arrivano a denunciare l’accaduto.
Le ragioni che spingono la donna a non rivelare la violenza subita sono molteplici, ma tutte riconducibili ai fondamenti stessi di una società tradizionale e rurale come quella kosovara. L’organizzazione sociale è imperniata su di una concezione patriarcale che limita fortemente il ruolo della donna e nella quale trovano ampio spazio stereotipi sulla figura femminile.
Per la maggioranza della popolazione la violenza nei confronti delle donne non rappresenta una violazione dei loro diritti, bensì un modo normale di vivere la relazione uomo-donna. La violenza ai danni delle donne è così socialmente accettata. Lo testimonia il fatto che nello studio del KWN, più di un terzo degli intervistati consideri come un fatto naturale che vi sia violenza fisica nella vita di coppia.
La violenza è poi considerata come un fatto privato che, come tale, deve trovare soluzione all’interno delle mura di casa. La donna che denuncia tradisce e infanga l’onore della famiglia. Paradossalmente, il concetto di vergogna si applica non a chi commette violenza, bensì a chi la rende nota.
A spingere le vittime a non denunciare la violenza subita contribuiscono in maniera decisiva anche altri fattori quali la dipendenza economica della donna da chi commette l’abuso, il timore di perdere la custodia dei propri figli e la paura che quanto accaduto possa succedere nuovamente.
Tutele insufficienti e ruolo dei media
Il sistema di tutela delle vittime che decidono di ricorrere alla giustizia è, infatti, tutt’altro che efficiente. Capita spesso, ad esempio, che le autorità giudiziarie e di polizia emettano ed eseguano in ritardo le misure di protezione a favore delle vittime o non intervengano in caso di loro violazione da parte di chi ha commesso l’abuso. Raramente poi l’iter giudiziario si conclude con l’incarcerazione del colpevole, il quale, anche in caso di comportamenti recidivi, è libero di tornare a casa. La sfiducia delle vittime nei confronti delle istituzioni è quindi elevata.
Grazie alla presenza della comunità internazionale e alla pressione esercitata dalle associazioni per i diritti delle donne, il governo del Kosovo ha recentemente tentato di rafforzare la sua legislazione in materia per avvicinare il paese agli standard europei. Con il duplice obiettivo di garantire maggiore protezione alle vittime e certezza della pena per i colpevoli, nel 2010 il Parlamento ha adottato una Legge e una Strategia Nazionale per combattere la Violenza Domestica.
Ciononostante, la violenza domestica non è ancora riconosciuta come reato dal codice penale e l’implementazione dei provvedimenti adottati è alquanto lacunosa. I meccanismi di coordinamento tra le diverse autorità pubbliche competenti (polizia, organi giudiziari, servizi sociali, ospedali) sono deboli e, quando in essere, poco rispettati.
Quello che manca veramente è un reale impegno da parte della classe politica nell’affrontare con decisione il fenomeno. Ad oggi, i provvedimenti in vigore, seppure molto significativi dal punto di vista formale, sembrano solo delle cornici vuote adottate sotto la pressione internazionale.
A ciò va poi aggiunto il ruolo negativo giocato dai media nel combattere il fenomeno. Gli episodi di violenza domestica ai danni delle donne si guadagnano raramente spazio nei telegiornali e nelle pagine di cronaca dei quotidiani. Anche quando vi riescono, capita di notare che i giornalisti assumono una posizione “comprensiva” nei confronti della componente maschile.
In generale, i media riproducono gli stereotipi e le varie forme di discriminazione esistenti nella società, rinunciando così al loro compito di formare l’opinione pubblica sul tema delle pari opportunità e dei diritti delle donne.
Vita sotto protezione
In un contesto del genere, il lavoro svolto da sette associazioni di donne nate per proteggere le vittime di violenza è tanto essenziale quanto pericoloso. Queste associazioni hanno dato vita e gestiscono sette case protette esclusivamente dedicate all’ospitalità di donne e bambini vittime di violenza domestica.
Queste strutture sono distribuite su tutto il territorio del Kosovo, con sede nei principali centri urbani del paese (Pristina, Prizren, Peć/Pejë, Gjilan/Gnjilane e Mitrovica). Nel tentativo di rompere il silenzio delle istituzioni e dei media sull’argomento, le sei associazioni hanno dato vita nel 2008 ad una Coalizione Nazionale contro la Violenza Domestica e Sessuale.
Sorte nel dopoguerra, le case protette hanno offerto, in un primo momento, rifugio alle donne vittime di varie forme di violenza durante il conflitto. Diverse associazioni hanno anche assistito le vittime nel difficile compito di testimoniare presso il Tribunale Internazionale dell’Aja.
Oggi, presso le case protette le vittime di violenza possono trovare un alloggio sicuro, cibo, vestiti, assistenza psicologica, sanitaria e legale. Alcune associazioni hanno anche predisposto percorsi educativi per i bambini e di inserimento lavorativo per le donne. Il tutto per rompere il meccanismo di dipendenza economica delle vittime dall’uomo. Sino ad ora, oltre 2.000 tra donne e bambini sono stati ospitati presso le strutture delle associazioni.
Nonostante intercettino un bisogno sociale acuto e svolgano una funzione lasciata completamente senza risposta dal settore pubblico, le associazioni operano nel pressoché totale disinteresse delle istituzioni. Il governo copre solamente il 20% delle spese complessive delle case protette e i finanziamenti pubblici vengono rinnovati di anno in anno.
Le associazioni devono, quindi, provvedere autonomamente alla copertura delle spese di struttura ricorrendo a fondi internazionali in continua riduzione. L’incertezza del finanziamento rende, inoltre, impossibile una programmazione di lungo periodo, sopratutto per quanto riguarda il reinserimento delle vittime nella società. Infine, l’impossibilità di investire risorse in misure di protezione fa sì che le associazioni svolgano il loro lavoro in condizioni di sicurezza molto precarie sia per le vittime che per i loro attivisti.