La Turchia dopo Taksim
In oltre un decennio al potere il premier turco Recep Tayyp Erdoğan ha effettuato riforme importanti ma, come emerso dalle proteste recentemente esplose ad Istanbul e allargatesi a tutto il paese, non ha sradicato il riflesso autoritario insito nel sistema di governo. La "Turchia dopo Taksim", nell’analisi per OBC di Dimitar Bechev
La democratizzazione della Turchia non ha mai seguito un cammino lineare. Nel paese si cita spesso l’adagio secondo cui il consolidamento di norme e istituzioni democratiche fa due passi avanti e uno indietro. Persino nel 2006, al culmine della tensione ideale verso l’Unione europea, con il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) a spingere per maggiore libertà e diritti delle minoranze, il parlamento promulgò una restrittiva legislazione antit[]ismo per intensificare la lotta contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Di conseguenza, e dopo aver arrestato oltre 70 giornalisti (più di Cina o Iran), la Turchia si è guadagnata una poco invidiabile reputazione fra gli osservatori internazionali in tema di libertà di stampa.
Ora, dopo la pesante repressione delle proteste a Istanbul, sembra che la democratizzazione del paese proceda invece "un passo avanti, due indietro". Fra la retorica polarizzante del premier Erdoğan, il gas, i cannoni ad acqua e i manganelli, l’ideale della deliberazione democratica e partecipativa sembra più lontano che mai.
Vince la linea dura
Non doveva necessariamente andare così. Dopo lo sfratto degli ambientalisti dall’ormai famosissimo Gezi Park da parte della polizia, voci moderate all’interno dell’AKP avevano invitato al dialogo e al compromesso. Il presidente Abdullah Gül, che gode della fiducia dell’intellighenzia liberale, ha dichiarato che democrazia è molto di più di sole elezioni. Secondo quanto riferito, l’intervento di Gül ha portato la polizia a ritirarsi da Taksim il 2 giugno, aprendo le porte all’accampamento di tende e ad una vera e propria estate di “libertà e amore”.
Il contrasto con Erdoğan non potrebbe essere più profondo. L’uomo forte della Turchia ha ripetutamente classificato i manifestanti come "saccheggiatori", "sbandati", agenti di potenze straniere e oscuri speculatori che cercano di minare la lira turca. Chiamando a raccolta centinaia di migliaia di sostenitori dell’AKP ad Ankara e Istanbul per una dimostrazione di forza, ha raccontato storie di sbandati che bevono birra e compiono atti sessuali nelle moschee, molestando spudoratamente donne velate.
La linea dura ha chiaramente vinto. Anche il vice primo ministro Bülent Arinc, che inizialmente si era scusato con i feriti, non ha poi escluso l’uso dell’esercito per arginare le proteste. Quattro canali televisivi sono stati multati per aver coperto gli eventi, ci sono centinaia di detenuti tra cui avvocati e medici. Vi è un forte senso di dejà-vu: le battaglie di strada di questi ultimi giorni evocano i ricordi della quasi guerra civile tra destra e sinistra degli anni settanta e i pogrom anti-minoranze del settembre 1955.
Erdoğan e la nuova Turchia
La tesi di Erdoğan vede contrapposti un leader democraticamente eletto, sostenuto dalle masse, e sbandati che rovinano l’immagine della Turchia. In effetti, ai manifestanti era stata data una possibilità. Benevolmente, il premier aveva accettato di rispettare l’ingiunzione del tribunale sul blocco della “riqualificazione” di Taksim e Gezi Park. Con una ulteriore concessione, Erdoğan aveva promesso un referendum sul piano edilizio, anche se i giudici si fossero pronunciati a favore del governo. Rifiutandosi di evacuare il parco, gli attivisti hanno esaurito la notoriamente scarsa pazienza del premier, non lasciandogli altra scelta che ristabilire l’ordine pubblico a suon di manganelli.
Ma il problema di Erdoğan è l’incapacità di comprendere la nuova Turchia da lui stesso fatta emergere. La sua visione manichea del mondo classifica la protesta come manovra della vecchia opposizione laicista. Non è necessariamente così. Secondo un sondaggio di Konda, solo il 41% degli occupanti di Gezi ha votato Partito Repubblicano del Popolo (CHP) nel 2011, mentre il resto non aveva l’età per votare (17%) o sosteneva altri gruppi (gli elettori AKP rappresentavano il 2%). Solo il 31% ha detto che voterà di nuovo CHP. Con "libertà" e "diritti" citati come parole d’ordine dalla maggior parte degli intervistati, è palese che il movimento chiede governo più reattivo e responsabile, non una restaurazione dell’ancien régime.
Secondo un altro sondaggio espresso condotto da Bilgi University, solo il 6% vuole un intervento militare. Altra cosa rispetto alle manifestazioni repubblicane del 2007 e alla rabbia di fronte alla prospettiva di una first lady velata (Hayrünnisa Gül), mentre il CHP chiedeva apertamente un colpo di stato da parte dell’esercito. Questa volta, è la svolta autoritaria di Erdoğan, piuttosto che una presa di potere islamista, reale o percepita, a portare la gente in piazza. L’indagine Bilgi registra inoltre che circa il 9% dei manifestanti aveva effettivamente votato AKP. La protesta si è estesa alle roccaforti del partito nel cuore dell’Anatolia, come Kayseri e Konya.
Ancora più significativamente, i media vicini a Fethullah Gülen, un teologo con grande seguito sia in Turchia che all’estero, hanno dato un prudente sostegno alle proteste, dopo aver criticato il governo per un certo tempo. La pubblicazione in lingua inglese Zaman ha dato voce ad un gran numero di liberali scontenti che in passato facevano il tifo per Erdoğan nella lotta contro la tutela militare e lo stato profondo kemalista. Infatti Taksim ha raccolto gruppi molto dissimili, quando non antagonisti: laici che non hanno mai accettato l’AKP e liberali, nazionalisti turchi e attivisti curdi, giovani per lo più apolitici messi in azione dai social network, professionisti urbani e sindacalisti di sinistra.
Anche i tifosi delle tre principali squadre di calcio a Istanbul, di solito acerrimi nemici, hanno unito le forze nella prima linea delle proteste. A tenere insieme tutto questo è Erdoğan, con la sua sete di potere e disprezzo per le opinioni dissidenti.
Riflessi autoritari, media e società civile
Sirri Süreyya Önder, pittoresco parlamentare del partito filo-curdo Pace e Democrazia (BDP), ha ironicamente osservato che l’unico kemalista di Taksim era il governo dell’AKP. Non ha tutti i torti. Erdoğan ha reagito alla sfida alla sua autorità tracciando una netta distinzione fra "noi" (la maggioranza conservatrice, grata per il decennio di stabilità sociale e prosperità senza precedenti) e "loro" (gruppi radicali che contestano un governo democraticamente legittimato e servono i nemici della Turchia). I suoi toni paternalistici, che mettono l’interesse dello stato in primo piano e sottolineano l’importanza di un forte potere esecutivo, evidenziano un radicato problema che affligge l’imperfetta democrazia turca.
Se l’AKP ha civilizzato la politica turca trasferendo il potere nelle mani di politici eletti e ha fatto molto per ampliare i diritti dei curdi e altre minoranze, non ha fatto però abbastanza per affrontare la più profonda falla radicata nella tradizione repubblicana della Turchia: il riflesso autoritario insito nel sistema di governo. Ciò che abbiamo di fronte è un leader forte, carismatico e tutto sommato di successo, al potere da oltre un decennio, con pochi controlli istituzionali a contenere le sue ambizioni e una macchina statale asservita al suo volere (come illustrano le azioni intraprese dalla polizia). Si aggiunga la prospettiva del passaggio dal regime parlamentare a quello presidenziale, sostenuto da Erdoğan, e la prospettiva di una svolta autoritaria si fa veramente allarmante.
Al di là dei toni abrasivi di Erdoğan, del disprezzo per le opinioni divergenti e della volontà di forzare le decisioni nonostante il malcontento popolare, le proteste sono guidate da una logica istituzionale. La pressione popolare viene a colmare una lacuna lasciata aperta dai sistemi formali. Né i partiti di opposizione (con la parziale eccezione del BDP, che serve comunque una più ristretta agenda etnica) né i media sono in grado di fornire un contrappeso al centro di potere risultante dalla fusione di ideologia conservatrice dell’AKP e forza dello stato turco. L’opposizione, divisa tra riformatori socialdemocratici e veterani kemalisti, non è riuscita a offrire una risposta credibile a sviluppi importanti come il processo di pace curdo di questa primavera.
Con poche eccezioni, i media hanno fallito alla grande nel seguire le proteste. Già prima avevano sollevato preoccupazioni i licenziamenti di giornalisti di spicco come Hasan Cemal o Amberin Zaman (che copre la Turchia anche per l’Economist) dai rispettivi giornali. La società civile, o almeno un segmento significativo della stessa, è probabilmente la migliore risorsa della Turchia, l’unico strumento di controllo disponibile nelle circostanze attuali. La vivacità e robustezza del tessuto civile della Turchia è stata ampiamente dimostrata dalle proteste, dalla fornitura di maschere antigas alla distribuzione di medicine e cibo da parte di attivisti e reti auto-organizzate. E non è la prima volta che queste cose accadono: basti citare l’azione di solidarietà in seguito al terremoto di Marmara nel 1999.
L’Unione europea: così vicina, così lontana
Le democrazie consolidate ai bordi dell’Europa hanno spesso beneficiato dall’avere l’UE come un’ancora esterna a guidare il cambiamento interno. Questo è stato anche il caso della Turchia, soprattutto tra il 1999, quando il paese ha ottenuto lo status di candidato, e il 2005, quando Bruxelles ha deciso di aprire i negoziati di adesione. Purtroppo, l’Unione ha in gran parte sperperato il potere che precedentemente esercitava. I negoziati di adesione in fase di stallo, le divisioni tra gli stati membri e la crisi dell’euro hanno nutrito la tracotanza di Erdoğan.
Il primo ministro turco è un pragmatico in politica estera, non un anti-occidentale di natura, come alcuni dei suoi critici lo dipingono. Ha forgiato un fronte comune con gli Stati Uniti e la NATO sulla Siria e costruito forti legami personali con il presidente Obama. Ma non è certamente disponibile ad ascoltare moralismi dall’UE. Le critiche alla doppiezza di Bruxelles e all’islamofobia in Europa sono diventate un leitmotiv nei suoi discorsi. La maggioranza dei turchi condivide il punto di vista del governo.
Da parte loro, i manifestanti si basano sulle proprie forze, non sull’appoggio straniero, presente solo nella narrazione di Erdoğan sul complotto esterno. Se è vero che i media stranieri sono stati ben accolti a Taksim, pochi attendevano con il fiato sospeso le dichiarazioni di Catherine Ashton e del commissario per l’allargamento Štefan Füle.
La Turchia dopo Taksim
In Turchia, i termini che indicano "pluralismo" (çoğulculuk) e "maggioritario" (çoğunlukçuluk) suonano abbastanza simili. Ma fanno riferimento a due percorsi alternativi. La futura traiettoria degli eventi avrà sicuramente un notevole impatto sull’evoluzione politica della Turchia. Un ulteriore giro di vite accompagnato da una mobilitazione della base AKP avrà un effetto polarizzante sulla società, foriero di mesi di tensioni e instabilità. Tale scelta potrebbe sostenere Erdoğan nel breve termine, ma costerà cara al paese: non solo il conflitto politico renderà più difficile la stesura di una nuova costituzione, ma potrebbe anche estendersi all’economia e minacciare lo sforzo del governo di trovare una soluzione duratura per la questione curda.
Dopo l’imponente ripresa del 2010 e il 2011, la crescita dell’economia turca, dipendente dall’afflusso di fondi dall’esterno, ha rallentato al 2,2% nel 2012, in parte come risultato della recessione nei paesi chiave dell’UE. Il rischio politico potrebbe anche scoraggiare gli investitori e incidere sulle proiezioni di crescita al 3,5% nell’anno in corso. Crescenti tensioni nelle grandi città potranno inoltre distogliere l’attenzione dai negoziati con il leader PKK incarcerato, Abdullah Öcalan. L’AKP ha già fallito una volta nel fornire una soluzione pacifica al decennale problema relativo ai diritti culturali, linguistici e politici della comunità curda (14 milioni di persone in Turchia). Erdoğan vede i colloqui in corso come il fulcro della sua eredità politica.
Se le proteste faranno deragliare sia i negoziati che il processo costituente, Erdoğan subirà un duro colpo, considerando il rischio corso avvicinandosi ad Öcalan.
Uno scenario positivo potrebbe vedere Erdoğan abbassare i toni e forse lasciare più spazio a Gül. Le autorità locali dovrebbero anche rivedere il piano per Gezi Park, tenendo conto delle opinioni dei cittadini di Istanbul. Questo dovrebbe accadere con la minima interferenza dall’alto possibile. In fondo, Erdoğan non è più sindaco di Istanbul come nel 1994-8, ma primo ministro. In ultima analisi, i redattori della costituzione dovrebbero abbandonare l’idea di una transizione verso un modello presidenziale. Le proteste sono una chiara indicazione che un tale sviluppo incontrerà una ferma opposizione.
La Turchia si prepara ad una serie di elezioni: comunali a marzo 2014, poi presidenziali, eventualmente precedute da un referendum costituzionale, e quindi parlamentari nell’estate del 2015. Questi saranno tutti momenti di tensione e polarizzazione che faranno sicuramente riemergere le proteste con rinnovato vigore. Quello che succederà nei mesi a venire lascerà un segno duraturo sulla politica e la società in Turchia.
Cosa può fare Bruxelles?
L’Europa può ancora fare la differenza? Le pressioni dall’alto potrebbero essere giustificate, ma certamente non portare a molto. Potrebbero essere addirittura controproducenti, dato il crescente utilizzo di teorie del complotto e capri espiatori stranieri da parte dell’AKP. Inoltre, l’UE ha un problema di credibilità. Ad esempio, la dichiarazione di Angela Merkel sull’opportunità di rimandare i negoziati di adesione viene letta in Turchia come una manovra pre-elettorale. Ancora, ci dovrebbe essere uno sforzo concertato dietro lo quinte per indirizzare Erdoğan verso una posizione più conciliante.
I governi vicini ad Ankara hanno un particolare dovere. Gli europei dovrebbero collaborare con gli americani, anche se l’amministrazione Obama si è più volte dimostrata riluttante a fare pressione sulla Turchia in tema di democratizzazione. Seguendo le orme della società civile dell’Unione, il Parlamento europeo dovrebbe continuare a mostrare solidarietà con i manifestanti.
Il linguaggio che dipinge l’islamizzazione come una minaccia è da evitare. La Turchia ha superato le guerre culturali degli anni 1990 e 2000. Se è vero che l’AKP deve accettare lo stile di vita secolare e astenersi dalle interferenze (ad esempio, sul consumo pubblico di alcolici), il problema è la ricaduta autoritaria, non l’ideologia conservatrice in sé. I riferimenti culturali non fanno che rafforzare la narrazione della "morale di maggioranza" di Erdoğan e approfondire la polarizzazione all’interno della Turchia.
*Dimitar Bechev è "Senior Policy Fellow" e direttore dall’ufficio di Sofia dello European Council on Foreign Relations (ECFR). Bechev è autore di numerosi saggi su allargamento dell’UE, politica di vicinanza europea, politica e storia moderna dell’Europa sud-orientale. Tra i suoi lavori: The Historical Dictionary of the Republic of Macedonia (2009), Mediterranean Frontiers: Borders, Conflict and Memory in a Transnational World,Constructing South East Europe: the Politics of Balkan Regional Cooperation (2011).
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa.