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Ucraina: la quarta fase della rivoluzione
La spola tra Kiev e Bruxelles di un funzionario del Parlamento europeo. Da Maidan all’annessione russa della Crimea, in attesa della quarta fase della rivoluzione
Iegor me l’aveva detto già a novembre: "Questa protesta durerà a lungo, siamo disposti a rimanere in piazza fino a primavera". Pensavo scherzasse ma è stato di parola. Ormai sono di casa a Kiev. I tassisti dell’aeroporto hanno volti famigliari e so perfettamente come comportarmi quando mi circondano a caccia di clienti negoziando con loro un prezzo equo per il trasporto in città.
"Il centro è bloccato, siamo costretti a lunghi giri su strade secondarie per arrivare al suo hotel", si lamentano per alzare la tariffa, "scaricatemi a ridosso delle prime barricate", rispondo, "ci penso poi io a raggiungere a piedi l’albergo", mostrando assoluta padronanza della situazione per abbassare il compenso.
Speravo, o forse inconsciamente mi ero illuso, che l’inverno monsonico che ristagna in Europa avesse addolcito anche il clima ucraino ma mi sbagliavo. La stagione fredda qui è veramente polare con temperature che non superano mai i meno dieci nonostante il sole splendente. Ne risente, ovviamente, anche il numero dei manifestanti che stazionano in permanenza sul Maidan sempre consistente ma ridotto rispetto alle occasioni precedenti. Constato, però, la diffusa presenza di giornalisti, telecamere e foto-reporter accorsi in massa dopo l’improvvisa svolta violenta assunta dagli avvenimenti a metà gennaio. Le cariche delle forze anti-sommossa e le prime vittime hanno lasciato il segno ma nemmeno le leggi speciali imposte da Yanukovic per intimidire e schiacciare la protesta sono riuscite a piegare la determinazione dei dimostranti che in risposta hanno provveduto a rafforzare le difese della piazza.
E’ oramai una vera tendopoli quella che occupa il centro della capitale. Si estende ben oltre piazza Indipendenza protetta da una doppia cinta di barricate intervallate da una fascia di "terra di nessuno". Occasionali incrostazioni di neve e ghiaccio rendono meno spettrali il filo spinato, i reticolati e i cavalli di Frisia che blindano l’accampamento sorvegliato nei punti di passaggio dai discreti controllori che si avvicendano a turno.
All’interno dei tendoni centrali riposano gli uomini del servizio d’ordine inquadrati in strutture paramilitari. Letti a castello e brande sono riscaldati nel mezzo da stufe da campo che mitigano appena con le ruvide coperte di lana grezza le rigide temperature esterne che nella notte scendono oltre i meno venti gradi. Al di là del freddo, però, mi chiedo come si possa dormire tra i decibel degli altoparlanti che per tutte le ventiquattro ore sparano musica ad alto volume che, nelle pause fra un discorso e l’altro, rimbomba ovunque.
Non c’è traccia di polizia a Maidan ma tutto attorno gli agenti presidiano i punti nevralgici della città. Lo schieramento delle forze dell’ordine si fa più compatto nei pressi degli edifici governativi e del parlamento. Qui le vie di accesso sono ostruite dai blindati. E’ un giorno importante, forse decisivo, per alcuni, in vista di un possibile sblocco della crisi. Dopo lunghi e concitati negoziati, sotto la pressione dell’opinione pubblica e della diplomazia europea, i deputati della maggioranza hanno accettato di abolire le leggi speciali adottate solo qualche giorno prima che limitano la libertà di espressione e mettono la museruola al mondo non governativo.
Sono almeno quaranta gli autobus parcheggiati sul viale che porta alla Verkhovna Rada (Parlamento) da cui scendono disciplinati i manifestanti del Partito delle Regioni trasportati dalle provincie orientali per esprimere sostegno alle forze di governo. Marinsky Park, il parco di fronte all’edificio parlamentare, è tutto occupato da tende dove i dimostranti si rifocillano sulla falsariga di quanto avviene a poche centinaia di metri di distanza a Maidan con rivendicazioni opposte. E come a Maidan, nello spiazzo di fianco all’area verde è stato allestito un grande palco con schermo dove gli oratori si alternano sbraitando dai microfoni per catturare l’attenzione degli infreddoliti astanti avvolti in drappi blu, il colore del partito di maggioranza.
Il poliziotto non vuole saperne di farci passare. Nonostante fossimo intruppati e mimetizzati nel flusso dei manifestanti l’agente ci individua e vuole impedirci di avvicinarci all’ingresso del parlamento. A nulla valgono, nella ressa, le rimostranze di Rebecca Harms che mostra il suo badge di eurodeputata e un documento che attesta l’invito della Verkhovna Rada.
Solo l’arrivo della collaboratrice di un deputato ucraino ci sottrae dall’attenzione delle forze dell’ordine determinate a prevenire ogni infiltrazione di persone ostili al governo in carica. Ci ritroviamo così in galleria fra ambasciatori e giornalisti dove assistiamo alla breve sessione in cui all’unanimità i deputati cancellano le leggi vergogna che avevano suscitato l’indignazione generale. Qualcuno ha definito il parlamento ucraino come "il più grande comitato di affari del continente" a sottolineare il legame diretto o indiretto di buona parte dei suoi membri con i vari oligarchi che monopolizzano l’economia del paese.
E gli oligarchi hanno deciso che non è opportuno tagliare i ponti con l’Unione Europea il cui mercato, per alcuni, rappresenta una consistente fetta dei propri affari. "Business is business", direbbero gli anglosassoni, meglio allora mettere da parte le ragioni ideologiche per concentrarsi su quelle del portafoglio anche e soprattutto in considerazione del fatto che i cospicui conti correnti sono al sicuro presso le banche dei paesi occidentali.
"L’Ucraina è uno stato artificiale", dichiarò nel 2008 Vladimir Putin gelando gli altri capi di Stato al vertice NATO di Bucarest cui era stato invitato come ospite d’onore per un incontro bilaterale più di facciata che di sostanza. Le parole dell’uomo forte di Mosca chiamavano in causa l’identità nazionale di un paese profondamente diviso sia dal punto di vista etnico che da quello linguistico. E il terzo elemento che abitualmente viene preso in considerazione nella definizione del profilo di un popolo, quello della religione, rende la situazione ancora più ingarbugliata. Il fattore religioso ha giocato un ruolo primario nella rivoluzione del Maidan.
Sulla piazza si trovano icone e croci un po’ dappertutto: tra il filo spinato delle barricate, appese agli angoli di strada, in edicole improvvisate nei punti di passaggio e, ovviamente, sul palco principale dove campeggia una statua della Madonna affiancata da un grande crocifisso e dall’immagine di Gesù Cristo. Una delle tende sul Maidan è stata riadattata in cappella. Tra la folla si notano spesso sacerdoti che si intrattengono con i dimostranti con vescovi e patriarchi che si alternano al microfono ai leader politici. Ma in Ucraina non c’è una confessione prevalente.
Anche se la maggioranza della popolazione, secondo recenti indagini, si dichiara ancora non credente in continuità con l’ateismo di stato del periodo sovietico, il fervore religioso è in rapida crescita. E la politica non può non tenerne conto specialmente se ci si trova in un paese a tradizione ortodossa dove potere temporale e potere religioso vanno sempre a braccetto.
"La nazione ucraina è unita al cospetto di Dio nonostante le diverse identità regionali", dice Filaret, Patriarca della Chiesa Ortodossa Ucraina di Kiev durante un incontro fra i leader religiosi ed alcuni eurodeputati, "i giovani che affollano il Maidan non hanno memoria del passato", continua, "l’Europa deve sostenere la trasformazione democratica del paese".
Per il Patriarca la sollevazione in corso segna un profondo cambiamento di mentalità. "Nelle province orientali", afferma, "resiste ancora la cultura sovietica, ma non nel resto del paese". Filaret rappresenta per numero di fedeli la confessione maggioritaria, seppur di poco, dell’Ucraina. La sua chiesa è nata dopo l’indipendenza ed è quindi idealmente legata a doppio filo con gli sviluppi più recenti della storia del nuovo stato.
Non così la Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca, la più radicata sul territorio, il cui Metropolita Volodymir durante la riunione si limita laconicamente ad affermare che la gente non è sufficientemente a conoscenza di cosa comporta l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea e avrebbe bisogno di più informazioni. I seguaci di Volodymir si trovano soprattutto nella zona orientale dell’Ucraina dove sono più forti i legami con la Russia. Di tutt’altra opinione è l’arcivescovo Sviatoslav in rappresentanza della Chiesa Greco-Cattolica di Ucraina messa al bando durante il periodo sovietico e ritornata alla legalità nel 1987.
"Quello del Maidan è un progetto sostanzialmente pacifico anche se a volte la voce dei moderati viene messa a tacere dagli estremisti", osserva, "occorre, però, fermare i provocatori del governo e la violenza delle forze dell’ordine". I Greco-Cattolici, conosciuti anche come Uniati, sono in netta maggioranza nella parte occidentale del paese e rappresentano l’anima più sensibile al richiamo europeo. "L’Ucraina è tagliata dalla linea che divide l’est dall’ovest", evidenzia, "Dio sta mettendo alla prova la nazione che deve dimostrare di meritare i valori europei". "E’ una lotta fra impero e democrazia", conclude. E’ una gelida serata invernale in una sala d’hotel a pochi passi da Piazza Maidan che si conclude con una solenne preghiera ecumenica per invocare la protezione dall’alto dell’Ucraina. Che ne ha davvero bisogno.
La sinagoga Brodskij è situata nella zona centrale della capitale. Restituita alla comunità ebraica alla fine degli anni novanta è stata ricostruita ed inaugurata solennemente nel 2000. E’ il tempio più importante dell’ebraismo ucraino, che si colloca al quinto posto nel mondo per numero di affiliati. Il rabbino capo ce lo illustra, durante una visita guidata, con un certo orgoglio tra i banchi in legno che luccicano ancora di smalto fresco e gli addobbi dalle tinte gravi. Sono più di 100.000 gli ebrei a Kiev e anche loro in larga parte hanno sostenuto le rivendicazioni della protesta.
Collegato al retro della sinagoga si trova l’unico ristorante kosher della città, il King David, dove ci intratteniamo amabilmente attorno ad un grande tavolo imbandito di specialità della tradizione locale accompagnate da vino israeliano. Contrariamente a quanto pubblicato dalla stampa occidentale la comunità non si sente minacciata anche se i leader di Svoboda, uno dei partiti che siedono alla Verkhovna Rada, sono spesso accusati di anti-semitismo.
Mi sono ormai abituato a calcolare i tempi di viaggio con precisione maniacale. Cerco di evitare i tempi morti delle attese negli aeroporti e di organizzarmi in modo da sfruttare anche le piccole pause per leggere documenti o rispondere alla posta elettronica che mi insegue ovunque. Non mi era mai capitato di perdere un aereo. C’è sempre una prima volta.
Eppure, nonostante la telefonata da Bruxelles che mi avvisava dell’invio di una nuova delegazione parlamentare in Ucraina fosse arrivata solo tre ore prima della partenza dell’aereo, ero giunto a Malpensa in tempo utile, anche se al pelo. Non fosse stato per l’impiegata allo sportello che ha confuso Kiev con Chisinau ce l’avrei fatta anche stavolta. Fatale, poi, nella concitazione dell’errore, la caduta dell’apparecchio del pagamento bancomat che finisce in mille pezzi sul pavimento ritardando irrimediabilmente l’emissione dei documenti di viaggio.
Nel consegnarmi un nuovo biglietto con un itinerario alternativo per Francoforte che mi obbligherà ad un’odissea di dodici ore, la signorina mi saluta con un sorriso. "Mi fa piacere non si sia arrabbiato con me; altri l’avrebbero fatto", mi dice dopo essersi scusata per lo sbaglio. Le stringo la mano con distacco zen. E’ la quarta volta in quattro mesi che torno in Ucraina e so già cosa mi aspetta.
Yanukovic è fuggito da poche ore facendo perdere la tracce. Yulia Tymoscenko è già stata liberata e si è subito recata sul Maidan per ringraziare la folla. La morsa del gelo è svanita restituendo al fiume Dnipro il suo aspetto imponente e pacioso. L’Ucraina volta pagina anche se tante, troppe facce sono i volti conosciuti di una vecchia politica che aveva contribuito ad affossare il paese portandolo sull’orlo dell’abisso. Quattro viaggi e quattro fasi distinte di una rivoluzione destinata a ribaltare di nuovo i rapporti fra oriente e occidente in una versione aggiornata del risiko della geopolitica.
A fine novembre dello scorso anno erano i giovani e gli studenti a monopolizzare spontaneamente la piazza con canti e balli per protestare contro il voltafaccia filo-russo del presidente. A dicembre, poi, la mobilitazione ha toccato tutte la fasce sociali in difesa delle libertà civili contro le manganellate brutali della polizia. Le prime vittime, in seguito, hanno trasformato con il nuovo anno la gente di Piazza Indipendenza in un movimento di resistenza alle forze speciali, libere di agire impunemente in ogni angolo della capitale .
Adesso è il momento del lutto, del dolore e del ricordo. Più di cento persone, tra cui molti ragazzi, sono state trucidate a metà febbraio dai cecchini sul Maidan e nelle vie collaterali. E’ domenica e una processione incessante di gente comune, giovani, anziani, intere famiglie con i bimbi in spalla arrivano in piazza portando mazzi di rose a garofani rossi in memoria degli scomparsi. Le fotografie dei morti contornate da ceri costellano via Gruscevskaia ed il Maidan che porta evidenti i segni degli scontri. I marciapiedi si mostrano nudi, scorticati dai manifestanti che hanno utilizzato le pietre come armi improprie per difendersi dalle cariche delle forze anti-sommossa.
Dell’edificio dei sindacati, il quartiere generale della sollevazione, rimangono solo le pareti annerite dall’incendio appiccato dolosamente dalla polizia per snidare i rivoltosi. L’acre puzzo dei roghi non ancora estinti pervade l’aria. Le barricate sembrano discariche a cielo aperto con cumuli di rifiuti e scarti di ogni tipo ammassati alla rinfusa tra reticolati, pile di copertoni e blocchi di cemento. C’è tanta commozione ma si avverte anche un senso di sollievo. E’ caduto il regime ed è cominciata, fra mille incognite, la quarta fase della rivolta, quella della liberazione.
La residenza di Yanukovic si trova a una decina di chilometri dalla capitale. Nel primo fine settimana dopo la fuga dell’ex-presidente si è trasformata in meta di svago per i cittadini di Kiev fino ad allora ignari delle abitudini "a cinque stelle" del capo di stato. Con un tassista concordo a gesti e mugugni ed una stretta di mano il prezzo. Io non parlo ne’ ucraino ne’ russo, lui non sa ne’ inglese ne’ francese ma ci intendiamo subito. Si chiama Yuri ed è curioso come me di visitare la dacia in cui Yanukovic era solito trascorrere le ore di relax lontano dai palazzi del potere.
E’ lunedì ma l’affluenza della gente non si è ridotta. Lunghe file di auto intasano già un paio di chilometri prima tutte le strade di accesso. Siamo costretti ad un parcheggio di fortuna e ad una tranquilla camminata tra gruppi di comitive festose in libera uscita come fosse una gita fuori porta. Tutti vogliono vedere e toccare con mano i lussi e gli eccessi dell’uomo più odiato del Maidan. La residenza è situata in un grande parco sulla riva del fiume Dnipro.
Ci sono diverse palazzine in stile presumibilmente per i vari momenti della giornata con un grande edificio centrale in legno tra stagni artificiali popolati da cigni e prati provvisti meticolosamente di irrigazione a spruzzo. La gente sciama ovunque cercando di sbirciare dalle finestre all’interno della villa per catturare i segreti della vita intima dell’ex-uomo forte del paese. Osservo Yuri sgranare gli occhi incredulo. Possibile che in Ucraina nessuno fosse al corrente di tale sfarzo? Dove erano stampa e opposizione quando fu costruita la dacia? Da qualche parte saranno pur state messe a bilancio le enormi cifre di spesa.
Difficile credere che Arseny Yatseniuk, il nuovo primo ministro, possa rispecchiare fedelmente l’immagine del Maidan. Nonostante abbia solo solo trentanove anni è uno dei politici di più lungo corso della scena di un Paese sceso in strada per invocare rinnovamento e cambiamenti radicali. Con lui al potere la rivoluzione del Maidan sembra assumere i contorni di una restaurazione. Come fosse un rito scaramantico tutti i leader di partito compresi il Partito delle Regioni, quello di Yanukovic, e il Partito Comunista ripetevano che era escluso il pericolo di secessione.
Ci ha pensato, poi, Putin a muovere le sue pedine sulla scacchiera calibrando in Crimea hard e soft power con l’utilizzo sapiente di vecchie e nuove tecnologie a sostegno di un’efficace campagna di propaganda a livello internazionale. Le nuove autorità di Kiev vacillano sotto i colpi della Grande Madre Russia, la stessa che nel 1994 aveva sottoscritto a Budapest con Stati Uniti e Gran Bretagna un memorandum dove si impegnava a garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio dello smantellamento dell’arsenale nucleare ereditato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Nemmeno i trattati internazionali hanno più valore ormai. Per il nuovo zar di Mosca sono carta straccia. E non sono certo le blande sanzioni euro-atlantiche a rendere trasparente all’opinione pubblica il vestito dell’imperatore. Yatseniuk, intanto, va in parlamento e promette al paese lacrime e sangue in cambio di un consistente pacchetto di aiuti finanziari dall’occidente per evitare la bancarotta. Qualcuno malignamente sostiene che ha vinto la piazza ma ha perso l’Ucraina. Io, però, mi rifiuto di crederci anche se gli ambulanti a Kiev vendono già i gadget in memoria della rivoluzione del Maidan.