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Georgia: profughi per sempre
In Georgia agli sfollati interni dei primi anni ’90 si sono aggiunti quelli del conflitto georgiano-osseto del 2008. E la loro situazione rimane del tutto precaria. Un reportage
Tserovani è una teoria di casette tutte uguali, quadrate, piccole e bianche. Costruito in soli cinque mesi, è uno dei villaggi che ospita i rifugiati interni georgiani (IDPs). Gli abitanti di Tserovani provengono tutti dall’Ossezia meridionale, fuggiti a seguito del conflitto georgiano-osseto del 2008, che vide l’intervento militare russo e portò all’indipendenza de facto dell’Ossezia del Sud.
“Veniamo tutti da Armazi, quel paese lassù” spiegano i vecchi del villaggio, indicando col dito un punto tra le montagne all’orizzonte. Allo scoppio della guerra, il governo li ha spostati in blocco nel nuovo insediamento salvaguardando così l’unità della comunità. “Non tutti sono stati così fortunati – ci dicono – quelli che sono scappati negli anni Novanta sono finiti Dio sa dove”.
Le radici
Quello dei rifugiati interni non è un problema nuovo per la Georgia, e affonda le proprie radici nelle guerre in Ossezia del Sud (1991-92) e Abkhazia (1992-93), oltre che nella guerra civile che negli stessi anni si scatenò nel Samegrelo, causando circa 300mila sfollati.
Il governo non seppe far fronte all’emergenza, né riuscì a dare alloggio agli sfollati negli anni successivi. Così è ancora possibile trovare famiglie di profughi che vivono in condizioni di precarietà nelle case diroccate della vecchia Tbilisi, sospesi tra un passato mai dimenticato e un futuro inesistente.
Flagellati da emarginazione, povertà, evasione scolastica e disoccupazione, gli sfollati interni continuano a essere cittadini di seconda categoria, malgrado negli ultimi anni il governo abbia provato a risolvere la loro situazione. “La disoccupazione è molto più elevata tra gli IDPs rispetto al resto della popolazione – spiega Julia Kharashvili, già consulente del ministero per i Rifugiati interni e direttrice della IDP women association – e questo rende i rifugiati socialmente più deboli. La povertà ha come conseguenza il lavoro minorile e l’evasione scolastica”.
Inizialmente la popolazione georgiana ha espresso solidarietà verso i connazionali in fuga, ma l’atteggiamento è rapidamente mutato: “La compassione ha lasciato posto alla recriminazione ed è diventato frequente sentire frasi come ‘tutti i soldi per l’assistenza vanno ai rifugiati’ dando luogo a situazioni di discriminazione ed emarginazione”.
2008
Il conflitto georgiano-osseto del 2008 causò una nuova ondata di profughi, circa 135mila persone. L’allora governo di Mikhail Saakashvili costruì, a tempo di record, piccoli villaggi in cui accogliere le comunità in fuga. Dovevano essere temporanei, ma nulla è più definitivo di ciò che è temporaneo. Sorsero così scuole, negozi, stazioni di polizia e ambulatori per far fronte alle esigenze della popolazione.
Ad oggi quello dei rifugiati interni resta un problema insoluto: secondo i dati del ministero dei Rifugiati interni e dei Territori occupati, sono ancora 270mila le persone sfollate in Georgia. I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, soprattutto quelli di stampo nazionalista, hanno continuato a promettere il ritorno nei territori di origine, tenendo viva la speranza delle comunità sfollate ma alimentandone anche il senso di precarietà.
Nino
Solo i più giovani sembrano essersi affrancati dalla chimera del ritorno. “Sono nata qui, in questo villaggio – dice Nino, studentessa di Tserovani – e non mi interessa tornare nel paese dei miei genitori”. Nino studia psicologia all’università di Tbilisi: “Molti ragazzi non possono studiare all’università, perché le famiglie non riescono a pagare le tasse d’iscrizione”. Un problema diffuso tra gli IDPs, che riescono spesso a sopravvivere solo grazie ai sussidi statali.
Nel tempo libero, Nino partecipa alle attività dell’associazione Ikorta che organizza attività per ragazzi e bambini del villaggio, e realizza prodotti di artigianato: “Dobbiamo pensare al presente, e il nostro presente è qui”. L’associazione gestisce l’Hello Café, una stanza minuscola ricavata da una delle tante casette prefabbricate, qualche tavolino graziosamente apparecchiato, le finestre ingentilite dai fiori. “Questo è l’unico posto dove i giovani possono ritrovarsi tra loro – racconta Nino – e non si servono alcolici”. La ragione è facile da capire: “L’alcolismo è molto diffuso tra gli IDPs – spiega ancora Julia Kharashvili – non esistono dati precisi, ma l’incidenza è maggiore che nel resto della popolazione, anche tra i più giovani. E’ una conseguenza del circolo vizioso che colpisce molti sfollati, che non riescono a uscire da una situazione di povertà ed emarginazione che viene trasmessa di padre in figlio”.
Vittime
La situazione più complessa è quella femminile: “Nei villaggi dove vivono gli IDPs le donne si trovano in situazioni di estrema fragilità, la loro incolumità fisica e psicologica è messa a repentaglio dalle violenze domestiche, figlie del tradizionale maschilismo georgiano ma anche del contesto di povertà in cui le famiglie si trovano”, sottolinea la Kharashvili che, con la sua associazione, assiste le donne dei villaggi di rifugiati.
“Traumatizzate dal conflitto, spesso hanno faticato a trovare un posto nella nuova realtà, soffrendo maggiormente dei fenomeni discriminatori che hanno interessato tutti gli IDPs. Hanno dovuto prendere il posto dei mariti durante la guerra e spesso anche dopo la guerra, lavorare per pochi soldi, prendersi cura dei figli, svolgere lavori domestici. Tuttavia non sono rappresentate nei consigli cittadini, non hanno voce in capitolo rispetto alle questioni che riguardano la comunità, e si trovano in posizione subalterna rispetto agli uomini”. Per queste ragioni, continua Julia, le donne IDPs “hanno sviluppato un profondo sentimento di pace” che si esprime nel rifiuto “delle logiche del conflitto e della divisione”. Per questo “sono le più coinvolte nei progetti sociali, danno vita ad associazioni e portano avanti iniziative di aggregazione”.
La situazione degli sfollati interni georgiani resta precaria, lo stigma sociale nei loro confronti continua ad essere forte, tuttavia la situazione si va normalizzando grazie alle nuove generazioni che, da un lato, hanno smesso di sognare un ritorno alle regioni di origine e, dall’altro, si impegnano in progetti di integrazione sociale. Il “circolo vizioso” del rifugiato interno potrebbe così finalmente spezzarsi.