Turchia, voglia di muri

Ai confini con Iran e Siria il governo di Ankara costruisce oggi chilometrici muri, per riaffermare il controllo sulle frontiere e fermare migranti, jihadisti e contrabbandieri. Un reportage del nostro corrispondente

06/12/2017, Dimitri Bettoni -

Turchia-voglia-di-muri

Confine Turchia-Iran - Foto - D. Bettoni

Raggiungere il confine ha richiesto diverse ore di auto, abbandonando l’asfalto della strada principale per inoltrarsi lungo strade sterrate che tagliano i campi dall’erba corta, dove si scorge qualche mucca e greggi di pecore al pascolo. I pendii brulli delle montagne si stagliano contro l’azzurro terso del cielo e il verde della vallata. Il villaggio è un piccolo cumulo di case polverose dai muri scrostati, la carcassa di un furgone marcisce nel fango, mucchi di mattoni di letame sono accatastati in attesa di essere bruciati nelle stufe, durante il prossimo inverno.

Parcheggiamo l’auto nel cortile e un cane ossuto si fa avanti annusando l’aria, seguito dai volti incuriositi dei bambini. Sono i figli più piccoli di Rezan*, che compare per ultimo con passo claudicante. Ci sediamo nel prato dietro casa, bevendo tè forte a foglia larga. Lo sguardo di tutti corre alle cime ad est: il confine, oltre il quale c’è l’Iran. Quel confine Rezan l’ha varcato centinaia di volte: faceva il contrabbandiere.

Muri alle frontiere

Lungo lo stesso confine, un po’ più a nord, la Turchia costruisce oggi un muro lungo 144 chilometri, nelle province di Ağrı, Iğdır e Van. Molto più a sud, dove inizia la Siria, un muro identico è già stato completato: 700 chilometri di cemento, reti metalliche, telecamere e sensori di movimento. La costruzione è affidata all’ente pubblico per lo sviluppo dell’edilizia “Toki”. Il governo di Ankara è determinato a riaffermare ad ogni costo il controllo su un confine che appare fragile in mezzo al turbinio mediorientale, con le sue guerre e le sue violenze.

Coi muri intende porre fine ai flussi di migranti e al traffico di esseri umani, al passaggio della guerriglia curda del Pkk in lotta con lo stato centrale da quarant’anni, al flusso di merci di contrabbando che passano da un villaggio all’altro. I giornali vicini al governo raccontano che la Turchia vuole proteggere quello che è anche il confine esterno d’Europa.

"Ma i sentieri, i villaggi, le famiglie sono più antichi di qualsiasi confine", commenta Rezan a mezza voce, una volta vinta la reticenza a parlare. E spiega che quando un confine viene tracciato sulla mappa, recide legami vecchi di secoli e rende illegale ciò che prima era naturale.

Rezan non ha parenti nei villaggi curdi situati in territorio iraniano, ma molte delle famiglie che abitano il villaggio ne hanno. Un tempo nel villaggio vivevano una cinquantina di queste famiglie, ma la vita da queste parti è sempre stata aspra, gli inverni duri. A questa durezza si è aggiunta la volontà dello stato di sgomberare la regione e convincere la gente a spostarsi nelle città. Con le buone o con le cattive.

Vita da contrabbandiere

Rezan ha cominciato a fare il contrabbandiere a 16 anni, calpestando i 15 chilometri che separano il villaggio dal confine quasi ogni giorno, conducendo i muli con le redini in mano. Portava in Iran pistacchi e pelli lavorate, tornava con sigarette, zucchero, tè e gasolio. Mi indica i fusti blu allineati lungo il muro esterno della casa, la plastica scolorita dal tempo. Dice che non c’era molta scelta, dalla terra non si trae abbastanza per le numerose famiglie curde, allevare animali non è facile. "Anche perché i soldati si accanivano sulle bestie, uccidendo o bruciando".

Rezan racconta che i soldati venivano spesso al villaggio e in quelli vicini perché sapevano che quasi tutti erano dediti al contrabbando, oppure perché pensavano di trovare qualcuno dei guerriglieri del Pkk. I quali però non si fermavano mai nel villaggio, proprio per non mettere in pericolo la popolazione, ben sapendo che l’esercito avrebbe punito con una rappresaglia durissima chi offre aiuto alla guerriglia.

Diverse volte i soldati hanno catturato Rezan lungo i sentieri, spesso picchiandolo per i tre fusti di gasolio che portava. Una volta, racconta, gli hanno addirittura sparato con un bazooka. L’amico che l’accompagnava è morto: è diventato uno dei “martiri del pane”, come qui vengono chiamate le vittime di un mestiere duro e talvolta spietato. Molti contrabbandieri sono morti così, a volte persino bombardati dagli aerei, come a Roboski, quando a morire furono in 34. Lui invece si è salvato, ma è rimasto ferito alle gambe.

Alla fine si è fatto 15 anni di carcere per contrabbando, un’esperienza da cui ha riportato più d’una cicatrice, sul corpo e nello spirito. Una volta fuori ha chiuso con tutto, i figli più grandi sono da tempo ad Istanbul, dove lavorano nel tessile per 700/800 lire al mese (150-180 euro circa).

Fine di un mondo?

Gli chiedo se sa del muro e se davvero – secondo lui – fermerà il contrabbando nella regione. Rezan pensa che il contrabbando minuto sia quasi scomparso, perché troppe sono le persone che hanno abbandonato queste valli e più nessuno rischia i viaggi a dorso di mulo. Per coloro che ancora restano sì, scambiare merci diventerà un’impresa impossibile e le famiglie che vivono nei villaggi a cavallo del confine saranno separate ancora più di prima. I giornali locali, vicini al movimento curdo, riportano già malumori e proteste.

Secondo Rezan, però, il vero contrabbando, quello da milioni di lire, si fa con i tir, che fanno la spola tra Istanbul e Teheran e passano indenni attraverso i valichi ufficiali grazie a stratagemmi e alla corruzione delle guardie doganali. Per quelli un muro non serve. Rezan è convinto che, alla fine, la vera ragione del muro sia il voler dividere ancora più quel che una volta era unito.

 

*Rezan è un nome di fantasia

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta