Istriana: Salvore

Sempre in sella alla sua bici Fabio Fiori attraversa il confine e annota instancabile le riflessioni sul significato di frontiera, confine, limes, sul cambiamento dei confini, sui nuovi muri che si ergono per i migranti. Il suo sguardo accorto si posa poi sui monumenti della Jugoslavia socialista prima di fare sosta a Punta Salvore

19/05/2023, Fabio Fiori -

Istriana-Salvore

Monumento di Plovanija è dedicato a “Soldati caduti e vittime del fascismo” (foto di F. Fiori)

Confini e frontiere: vecchi e nuovi, reali e immaginari, politici ed economici, culturali e religiosi. Categorie che da secoli si intrecciano lungo le rive adriatiche. Solo quarant’anni fa, si parlava di limes adriatico, con riferimento a un confine acqueo tra due blocchi: Occidentale e Orientale o, per essere più chiari, capitalismo e comunismo. Categorie generali, ampie, inevitabilmente approssimative. Comunque sia, ancora negli anni Ottanta del Novecento, quando dall’Italia mollavamo gli ormeggi per veleggiare verso oriente si diceva: “andiamo dall’altra parte”. Con riferimento alla Jugoslavia e non all’Albania che era ancor più lontana, irraggiungibile. Lo stesso si diceva salendo a piedi o in auto su un traghetto, oppure mettendosi in strada in direzione di Trieste, “per andare dall’altra parte”. Non ho mai sentito la stessa frase pronunciata da chi andava in Francia, Germania o in qualsiasi altra nazione europea, al di qua dal Muro.

Il faro di Salvore (foto F. Fiori)

Il faro di Salvore (foto F. Fiori)

Confine e frontiera, un sinonimo ambiguo, riprendendo il titolo di un interessante approfondimento di Ludovico Testa, per Zanichelli. Confine e/o frontiera che hanno perso il loro significato poliziesco con l’Accordo di Schengen, cioè il trattato di libera circolazione all’interno di quasi tutti gli stati che aderiscono all’Unione Europea. Ovviamente solo per noi privilegiati, dotati di passaporto color “rosso borgogna”. Area Schengen che nel settembre 2022, non comprendeva la Croazia. Perciò mi sono trovato a superare le auto ferme in attesa del controllo dei documenti, per poi passare senza neanche mettere i piedi a terra, mostrando da lontano alla polizia croata la carta d’identità italiana. Qui a Dragona, come anni fa sempre in bici sulla frontiera militarizzata di Ponte San Ludovico tra Italia e Francia, ho pensato che i migranti potrebbero e dovrebbero vestirsi da ciclisti e mettersi in sella per muoversi più facilmente, per sottrarsi a ingiuste leggi sulla circolazione delle persone. Non dimentichiamo mai che “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”, riprendendo l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

La strada piega a destra e sale, in direzione dell’ingresso autostradale per Rovigno. Faccio tappa al primo degli spomenik celebrativi jugoslavi, di questa mia pedalata istriana. A un turista frettoloso e distratto può sembrare una qualunque vecchia, dimenticata statua cementizia ai margini di un incrocio. Si tratta invece di una delle centinaia di monumenti brutalisti dedicati alla liberazione e celebrazione del popolo jugoslavo, a cui da qualche anno guarda con attenzione anche la storia dell’architettura internazionale. Belli o brutti che li si consideri, originali o banali che siano, testimoniano comunque un periodo storico e un fermento artistico importante, legato alle vicende della Jugoslavia socialista. Questo di Plovanija è dedicato a “Soldati caduti e vittime del fascismo”. Tre vele di cemento alte più di dieci metri, che portano altrettante grandi fasce mosaicate. Uno su fondo verde, dedicato a “tradizione e fratellanza”, un altro a fondo blu per “lavoro e agricoltura " e un terzo a fondo bianco per “resistenza e rivoluzione”. Correva l’anno 1981, ma l’epigrafe testimonia l’attenzione al plurilinguismo. “Caddero fratelli / nella lotta di liberazione / perché la secolare aspirazione / delle loro genti divenisse realtà / nella Jugoslavia socialista” si legge in sloveno, italiano e serbocroato.

Tappa breve, anche perché mi rimangono solo un paio d’ore di luce. Il cartello indica 13 km per Salvore, dove arrivo dopo una mezz’ora di piacevole pedalata su una strada poco trafficata, circondata da una profumata macchia mediterranea che si alterna a campi coltivati. L’Istria contadina resiste agli stravolgimenti economici e immobiliari del turismo. Arrivo al monumentale Faro di Punta Salvore nel momento più bello. Il sole, ormai bassissimo sull’orizzonte, va e viene tra nuvole sottili. Ho però il tempo di regalarmi un altro tuffo dalle scogliere ai piedi di questo gigante, fatto costruire da Francesco I nel 1818. “Cursibus Navigantium Nocturnis Dirigendis”, trascrivo dalla epigrafe che sta sul lato occidentale della base del faro. Il più antico della via luminosa sull’Adriatico orientale, riprendendo il titolo di un libro pubblicato qualche anno fa. Segnalamenti che rendevano più sicura la navigazione notturna da Trieste a Budua, che alla fine dell’Ottocento era il porto più meridionale dell’Impero. Dopo il tuffo ho anche il tempo per tirare fuori dalle sacche della bici il libro di Rilke, il mio talismano poetico. “Siamo come ogni cosa che si schiude, / e nient’altro che questa beatitudine”, la beatitudine che mi ha regalato questo tuffo al tramonto, la luce solare che riflette la pietra del faro, il suo primo lampeggio che anticipa il buio.

Punta Salvore è da più di mezzo secolo il paradiso dei campeggiatori, purtroppo oggi costretti ad adattarsi alle trasformazioni in simil-resort degli storici campeggi, acquistati e gestiti da un’unica società. Ma per chi come me ama ancora la spartana libertà che offrivano le strutture degli anni passati, c’è ancora l’Autokamp Tramontana, dove con 12 euro ho piantato la tenda per la mia prima notte istriana. Un piccolo campeggio, buio e silenzioso, dove si sente il rumore del mare e si annusa l’odore dei pini, dove ci si può addormentare distesi sul prato al fianco della tenda, per leggere la luccicante volta celeste.

PS

Sui significati, plurimi e ambigui, di confine e frontiera, si può leggere in rete un articolo molto interessante di Ludovico Testa.

Agli spomenik e al brutalismo jugoslavo ha dedicato nel 2019 una grande mostra il MOMA di New York. Toward a Concrete Utopia. Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 è il titolo dell’omonimo catalogo curato da Martino Stierli e Vladimir Kulic. A questi monumenti è dedicato un vero e proprio archivio fotografico online , arricchito da testi e immagini.

Per chi invece voglia approfondire la storia dei fari dell’Adriatico nordorientale c’è un prezioso volume edito dall’Unione degli Italiani: “La via luminosa sull’Adriatico orientale. I fari tra Trieste e la Costa Istriana” di Massimiliano Blocher e Paola Cochelli (2020; pp. 180).

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